Scenari. L'Onu, la Nato e i teatri di guerra: ma c'erano alternative di diritto
Manifestazione anti-americana di Houthi nello Yemen
In un recente intervento su La Stampa, Massimo Cacciari svolge alcuni lucidi rilievi sugli effetti dello “stato di guerra” non dichiarato, caratterizzante in primo luogo la posizione degli Stati occidentali nel conflitto in Ucraina, ma anche rispetto al conflitto israelo-palestinese. Non è, però, sui molteplici elementi di conferma di questi rilievi che preme dire qui qualcosa, ma sulla sottolineatura, che Cacciari pure fa, del «fallimento dell’Onu» e del diritto internazionale, ai fini del ripristino di condizioni minime, o provvisorie, di convivenza pacifica, in entrambi i teatri di guerra.
Ebbene, è certo che il Consiglio di sicurezza non solo non è stato in grado di dirigere, controllare e limitare l’azione dei soggetti coinvolti, ma neppure è riuscito a disporre l’invio di forze di interposizione, sia in Ucraina, sia in Palestina. Malgrado la sua paralisi politica, reazioni consistenti non hanno però mancato di manifestarsi, perlomeno nel caso dell’Ucraina, mediante strumenti tipici del diritto internazionale, quali l’adozione di contromisure collettive contro la Russia e la compartecipazione alla difesa ucraina. Pur nelle forme tradizionali di un ordinamento sprovvisto di meccanismi accentrati di attuazione delle sue norme, l’aggressione russa non è rimasta priva di sanzione giuridica.
Diverso è il discorso per la guerra di Gaza, non originata da un’aggressione, e in cui all’inazione del Consiglio ha fatto riscontro una catastrofe umanitaria, derivante dalle modalità, gravemente illecite, della reazione israeliana ai crimini di Hamas. Una catastrofe che, prima facie, sembra aver travolto il principio secondo il quale non si può rispondere a violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani, con analoghe violazioni.
Dico prima facie, perché sia la Corte internazionale di giustizia sia la Corte penale internazionale si sono attivate, proprio al fine di reprimere tali violazioni. Tant’è che la prima, su ricorso del Sudafrica, ha ritenuto plausibile la contestazione di genocidio mossa a Israele, e venerdì ha ordinato di cessare l’offensiva a Rafah; e il Procuratore della seconda ha chiesto mandati d’arresto per Sinwar e Netanyahu. Tutto bene, dunque? Per nulla.
E anche per qualche ragione in più rispetto a quanto già detto sull’Onu. Sull’Ucraina: compartecipazione alla sua difesa e sanzioni collettive alla Russia non solo non sono riuscite a ripristinarne l’integrità territoriale, ma hanno pure contribuito a un’ampia conversione militare dell’economia russa, in un quadro complessivo che si fa sempre più pericoloso.
Né è immaginabile cosa sarebbe successo se il Consiglio avesse autorizzato un intervento militare contro una potenza nucleare come la Russia (sempre che questo fosse stato effettuato). Quanto alla Palestina: ben poco hanno potuto le pluriennali sanzioni occidentali contro Hamas, dinanzi alla perdurante inattuazione del principio di autodeterminazione. Principio con il quale sarebbero stati probabilmente in contrasto gli stessi “Accordi di Abramo”, se conclusi senza il coinvolgimento dei palestinesi. Insomma: non è tanto all’Onu e al diritto internazionale tout court che sono imputabili gli scacchi del presente, quanto all’uso che ne è stato fatto. Non si tratta qui di negare i limiti, né dell’una, né dell’altro, ai fini dell’attuazione coattiva di principi fondamentali.
Ma mi chiedo: non era chiaro a sufficienza che il ricorso alla coazione, militare e non, contro la Russia si sarebbe rivelato… difficile, per di più in una comunità internazionale già da tempo spaccata? Più a monte: non si sarebbe dovuti correre ai ripari, stipulando accordi giuridici sull’espansione della Nato a Est, se non altro dopo il 2014, utilizzando al massimo, a tal fine, i meccanismi Osce? Tornando a Gaza: è davvero compatibile l’opzione militare – per come si è praticata – con la prospettiva dei due Stati, invocata a gran voce da quegli stessi Stati che supportano Israele in armi? E perché, solo ora, gli Usa si accorgono dei coloni in Cisgiordania, mentre solo ora, e non prima, il Segretario di Stato passa metà del suo tempo in tutto il Medio Oriente?
Concludendo, esistono usi del diritto internazionale diversi (se non alternativi) rispetto a quelli in atto, quali il ricorso a meccanismi di prevenzione dei conflitti militari e di soluzione pacifica delle controversie, nonché il disarmo.
Proprio a questi ultimi si sarebbe dovuto – e si dovrà – guardare, dato che l’uso di strumenti coercitivi, dinanzi a devianze pur gravi, presuppone una società internazionale coesa, per definizione assente in una fase di ricomposizione degli equilibri globali quale quella in corso. Anche perciò, in una fase simile – che, ripeto, non è iniziata ieri – l’adozione di decisioni in materia militare, ivi compreso lo stimolo all’industria militare a fini di riarmo, non può che essere soggetta a forme di controllo democratico, a qualunque livello esse si situino. Non solo il coinvolgimento informato delle assemblee parlamentari (allo stato attuale, non adeguatamente garantito, in Italia), ma anche l’attivazione di strumenti di democrazia partecipativa o deliberativa, a livello europeo e internazionale, sono di fondamentale importanza.
Pasquale De Sena, già presidente della Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea