Infagottata in un reticolato di impalcature, l’enorme cupola del Campidoglio nazionale attende impaziente la fine del restauro. Il bianco dei marmi spunta a malapena dal groviglio di tubi e ponteggi. Il 'restyling' è iniziato due anni fa e, secondo l’Ufficio storico dell’Avana, è a buon punto. I cubani diffidano delle dichiarazioni ufficiali. L’espressione 'quando riapriranno il Campidoglio' è il sostituto locale delle 'calende greche'. Eppure la scadenza è imminente e non procrastinabile: l’inizio del 2017. A febbraio di quell’anno ci saranno le elezioni legislative e il monumentale edificio dovrà accogliere il Parlamento rinnovato. Quest’ultimo – come anticipato dall’Ufficio storico –, dunque, tornerà nella sede tradizionale da cui aveva traslocato dopo la Revolución per trasferirsi nella zona occidentale di Playa, al Palacio de las Convenciones. Incuranti del termine, i lavori procedono con frenetica confusione tropicale. Il tempo, però, stringe. E il governo lo sa. Quello del Campidoglio è forse il più simbolico delle centinaia di cantieri aperti all’Avana. L’intera città è in pieno rifacimento. Una metafora visiva del momento storico che attraversa l’isola. Non è solo l’ansia di essere pronta al flusso di turisti e uomini d’affari Usa che si spera inneschi la recente normalizzazione. Il brulicare di lavori in corso è la trasposizione su strada dell’entropia di un sistema pericolosamente vicino al crocevia. In poco più di due anni, il Paese verrà catapultato nel futuro quando – tra febbraio e marzo 2018 – il presidente Raúl Castro lascerà il potere, come da lui stesso più volte annunciato. Nel frattempo, lo storico passaggio di consegne verrà preceduto da un’intensa maratona politica. «In aprile 2016 si terrà il VII Congresso del Partito comunista, l’ultimo con un Castro al vertice. E nel 2017 ci saranno le legislative. Prima, il governo ha annunciato una nuova legge elettorale che potrebbe ridurre il numero dei deputati, passando dagli attuali oltre 600 a circa 200. E una riforma della Costituzione», spiega Rafael Hernández, direttore di
Temas, uno dei pochi esempi di rivista finanziata dal ministero della Cultura ma autonoma rispetto a quest’ultimo. La vecchia guardia della Rivoluzione ha circa ventisei mesi per far spazio a una nuova generazione. «A livello locale questo è, in parte, già avvenuto: i vertici provinciali hanno in media 40-50 anni. Man mano che ci si avvicina al centro, l’età sale: 59 per gli esponenti del Consiglio dei ministri, 68 per quelli del Bureau politico – prosegue Hernández –. Questo deve cambiare. Come pure si deve procedere a una decentralizzazione e riduzione del potere della burocrazia». Gli esperimenti in tal senso, come quelli avviati 4 anni fa nelle province di Artemisia e Mayabeque, hanno dato risultati positivi. «Non si possono aspettare altri dieci anni per replicarli su scala nazionale», sottolinea il direttore. Il tempo scorre rapido, a dispetto del rigido discorso ufficiale. O, meglio, tra le sue pieghe. Gli ingranaggi dell’orologio cubano, però, procedono al ritmo rallentato di sempre. E i cambiamenti, soprattutto nell’ambito politico, stentano ad arrivare. «La svolta con gli Usa è la dimostrazione che esiste un processo in marcia – affermano Roberto Veiga e Lenier González, fondatori di
Cuba Posible, laboratorio di idee, in doppio formato: cartaceo e digitale –. In cui la società cubana, con il suo immenso potenziale e le differenti componenti, può giocare un ruolo importante. Certo, il governo resta un attore fondamentale. Può agevolare enormemente il percorso, perché ha una capacità organizzativa e di mobilitazione che nessun altro attore possiede». Nessuno parla apertamente di 'transizione' eppure il termine appare in controluce, seppur non se ne intuisce la meta. «La priorità di Raúl Castro e della sua cerchia più stretta è l’economia. In tale ottica si colloca il disgelo con Washington. Per far decollare crescita e sviluppo, però, il governo potrebbe essere disposto a cedere quote di potere», affermano Veiga e González. L'agenda dell’era Raúl – iniziata nel 2006 in modo temporaneo e, dal 2008, in forma definitiva –, in effetti, si è concentrata sulle riforme economiche. L’'attualizzazione del modello', con una progressiva apertura al settore privato, si riassume in una serie di misure volte a stimolare la micro-impresa – i cosiddetti 'cuentapropistas', ormai mezzo milione –, aumentare la produttività agricola con la concessione di terre in usufrutto e abolire restrizioni ormai intollerabili, dal divieto dei cellulari a quello di viaggi all’estero. Il risultato è un sistema bizzarro. Con due monete: il peso nazionale con cui sono pagati i dipendenti pubblici – la maggior parte della forza lavoro e vale un ventesimo di dollaro – e il peso convertibile, impiegato negli scambi con i turisti e, di fatto, parificato all’euro. E tre economie: l’inefficiente ambito statale, un ancora embrionale settore privato e un mercato nero debordante, che rende sostenibile le falle dei primi due. «L’attualizzazione ha introdotto cambiamenti significativi nella struttura economica. La partecipazione al settore privato e cooperativo cresce sistematicamente, nonostante le condizioni sfavorevoli del mercato interno. C’è un nuovo approccio riguardo agli investimenti stranieri che si sta cercando di attrarre con la legge del marzo 2014 e la cosiddetta 'Zona di sviluppo speciale del Mariel' (una specie di porto franco,
ndr). Si sta, inoltre, affrontando la questione della partecipazione di Cuba nei mercati finanziari internazionali con la rinegoziazione dei debiti esteri. Oltre al tema della riunificazione monetaria», spiega Ricardo Torres, economista del Centro studi economici cubani, istituto ufficiale ma con un certo grado di indipendenza che l’ha portato ad effettuare analisi spesso disincantate. «Raúl ha compreso e sancito in modo definitivo l’importanza del settore privato per lo sviluppo dell’isola, senza possibilità di marce indietro», aggiunge Omar Everleny Pérez, collega di Torres nel medesimo Centro. «La sfida centrale ora è la riforma dell’enorme settore pubblico cubano – sottolinea Torres –, cioè le imprese statali e la diffusa burocrazia». A preoccupare, intanto, è l’aumento della diseguaglianza, riconosciuto anche dai ricercatori legati al governo. Il divario tra chi lavora con i turisti e, dunque, ha accesso ai pesos convertibili e chi deve accontentarsi dei 20 dollari di stipendio statale, è evidente. E la gratuità di sanità e educazione non basta a colmarlo. I dati sono eloquenti: nell’ultimo anno, un milione di cubani ha alloggiato negli hotel all’interno dell’isola. I cellulari sono ormai tre milioni. Per contro, l’economista cubano-statunitense – e nonostante ciò collaboratore del Centro studi economici – Carmelo Mesalago stima un tasso di povertà intorno al 20 per cento. Mentre gli studiosi si interrogano sull’evoluzione del castrismo verso un modello cinese o vietnamita, la gente, per le strade, scherza: «Il socialismo è la via più lunga tra il capitalismo e il capitalismo». In realtà, come la storia cubana insegna, è impossibile ingabbiare l’evoluzione dell’isola in categorie preconfezionate. «Dobbiamo essere creativi per guardare al domani senza avere paura delle novità né rinunciare alle conquiste sociali ottenute – concludono Veiga e González –. Soluzioni di questo tipo nascono solo dal dialogo. È urgente costruire quella cultura dell’incontro a cui ha fatto più volte riferimento papa Francesco nel suo recente viaggio. L’iniezione di speranza ricevuta dal Pontefice è la risorsa imprescindibile per andare avanti verso il futuro».