Botta e risposta. «Lasciato a casa a 57 anni». Non possiamo arrenderci all'esclusione
Caro direttore,
da oltre 14 mesi sono rimasto disoccupato dopo 20 anni di onesto servizio svolto in un ente culturale che è stato posto in liquidazione. A causa di una mia invalidità non posso nemmeno fare un lavoro qualunque. Ho provato tutte le strade possibili e immaginabili, ma la mancanza di una professionalità moderna non mi rende riciclabile nel mondo del lavoro. Ho seguito anche uno specifico corso di formazione ma poi, pur avendolo superato, i datori di lavoro chiedono l’esperienza pratica di due anni (che ovviamente non è possibile avere). Ora, vista la mia matura età di 57 anni, ritengo importante dare la possibilità, a me e a tutti coloro che come me hanno perso il lavoro e hanno decenni di contributi pensionistici, di rimanere utili alla collettività aiutandoci con una pensioncina anticipata in cambio di un servizio di cittadinanza attiva. Perché noi disoccupati, che spesso siamo finiti in tale situazione per colpa di spericolati imprenditori e che abbiamo servito un’azienda per tanti anni, dobbiamo cadere in povertà? Quando non riesci a coprire le spese mensili e a pagare i debiti, non riesci più a fidarti di qualcuno che da lassù pensa anche agli uccelli del cielo che mangiano e crescono pur non avendo seminato. L’indigenza materiale crea anche impoverimento spirituale. Il dio denaro ci sta divorando anche la speranza. È vero che «non di solo pane vive l’uomo», ma a stomaco vuoto diventa veramente difficile ragionare e la preghiera diventa caotica, vuota. Meglio avere qualche briciola dalla quale riprendere a sperare.
Caro e gentile signor Salcito, è sempre difficile rispondere, come mi chiede il direttore, a lettere dignitose e dolenti come la sua. Quando si ha la fortuna di avere un buon impiego, spendere parole di incoraggiamento o tranquillizzanti per chi si trova in una situazione di disagio lavorativo rischia di suonare falso come un «cembalo che tintinna». Ciò che posso fare è anzitutto pormi accanto a lei per condividere la sua pena, evitando di nasconderle le difficoltà e al tempo stesso, però, cercando tenacemente quella speranza che lei dice «divorata dal dio denaro». Proprio in questi giorni mi è capitato di incontrare alcuni amici, anch’essi “lasciati a casa” dalle loro aziende. Più o meno della sua età, con posizioni dirigenziali e per questo più facili vittime sacrificali sull’altare delle ristrutturazioni, delle compravendite, delle riduzioni dei costi di gestione. Tutto lecito, per certi versi perfino necessario, affinché migliori l’efficienza complessiva del sistema e dunque la possibilità di creare “valore”. Peccato che quest’ultimo sia intenso spesso solo nella sua accezione “monetaria” anziché come il benessere complessivo apportato alle persone e alla società tutta. E così, nel lungo elenco di ciò di cui ci si fa carico nelle operazioni societarie, il futuro dei lavoratori occupa quasi sempre l’ultimo posto. È proprio questo sguardo miope, rivolto solo ai bilanci e non agli uomini, che papa Francesco ha definito pochi giorni fa «peccato gravissimo», perché capace di incidere e di intaccare la dignità dell’uomo. Ora lei dice: nella mia condizione, aggravata da un’invalidità, datemi almeno una pensione e fatemi svolgere qualche attività utile alla società. Ma per aver diritto alla pensione, pure quella anticipata che sta prendendo forma in questi mesi ed è chiamata “Ape sociale”, di anni anagrafici ne servono almeno 63 e 30 quelli di versamento contributivo (20 nel caso del prestito pensionistico). Dunque, per gli ultra cinquantenni nella sua condizione arrivare all’agognata pensione significa dover traversare un deserto per 5, 10 anche 15 anni. Non a caso la fascia degli ultra 55enni disoccupati è stata individuata, assieme alle famiglie in povertà assoluta con minori, quale soggetto prioritario di intervento per il nuovo “Reddito di inclusione” che partirà dal prossimo anno. Ecco parliamo di “inclusione”, però, non solo di sussidi, è bene sottolinearlo. Di reinserimento nel mercato del lavoro. Di ricollocazione in un altro posto, come si cerca di fare con il nuovo assegno di cui è finalmente partita la sperimentazione per 30mila disoccupati e che, ad esempio in Lombardia, è già realtà da tempo con il sistema della Dote Lavoro. Tre cose, infatti, non possiamo accettare: anzitutto che la logica economica ci renda indifferenti l’uno al destino dell’altro; poi che il sistema releghi ai margini chi si trova nell’età di mezzo, ritenendolo già obsoleto; ma soprattutto che la nostra speranza venga “divorata”. Nessuno mai solo, emarginato e disperato. Dobbiamo essere noi a darci, e a utilizzare, gli strumenti perché sia così. Francesco Riccardi