Squadre di psicologi lavorano per aiutare i genitori dei bambini morti nel mega-incidente in Svizzera. È la battaglia umana per eccellenza: vincere la morte, imparare a vivere dopo di lei. Una vita che stia oltre la morte. «Silvia – scriveva Leopardi in una delle sue poesie più belle e più note – rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale…?». Ma Silvia è morta. Possono ricordare qualcosa i morti? E noi possiamo chiamarli? Interrogarli? Con una poesia? Facciamo un altro passo, e tocchiamo la verità: non è forse proprio per questo che è stata inventata la poesia? Si ha poesia, dicono tutti, da De Sanctis a Croce, quando parliamo con linguaggio turbato e commosso, e non è turbato e commosso il nostro linguaggio quando facciamo i conti con la morte? In quei momenti cerchiamo «parole vere». Negli altri momenti, nella vita di tutti i giorni, affari lavoro compleanni, usiamo le parole correnti, di routine, le parole di tutti, non nostre. Parole false. C’è un libro uscito di recente su come affrontare il lutto traumatico (s’intitola proprio così,
Il lutto traumatico), in cui gli autori, cinque psicologi o psichiatri, osservano i traumatizzati, e scoprono che per la prima volta nella vita dopo il trauma fanno una drastica selezione degli amici: cercano gli amici con i quali possano parlare in profondità, perché ora sono precipitati nel profondo, e non tollerano più le parole superficiali. È come se la vita fino a quel momento fosse nell’inganno (la morte non ci riguarda) e d’improvviso l’inganno svanisse (ci riguarda, eccola qui). È il salto che devono fare i genitori e i parenti dei bambini morti sul pullman in Svizzera. Le istituzioni mandano a parlare con loro squadre di psicologi, nella speranza che questi trovino le parole che li possano sorreggere senza ignorare la verità, che ormai è innegabile. Per gli adulti e per i bambini è stata inventata la cosiddetta «stanza del silenzio». Un luogo dove, chi lo desidera, può ritirarsi e restare per il tempo che vuole. È un’invenzione nuova, dobbiamo cercare di capirla. Forse il silenzio serve più a uscire dalle parole vuote, che a sentire le parole piene. Ma forse è nel silenzio che le parole piene si fanno sentire. Chi si ritira nella stanza del silenzio è solo, ascolta se stesso e coloro che si porta dentro. I concittadini o connazionali si stringono intorno a lui con il lutto collettivo. Più grande è il lutto, più grande è la collettività. C’è il lutto della famiglia, del quartiere, della città. Questo è grandissimo, è un lutto nazionale. Chi patisce il lutto, sente che tutta la nazione lo patisce con lui. Il lutto vien condiviso. Dividendosi, diminuisce. Ci sono lutti, e questo è uno, che tolgono la parola: non hai più voglia di parlare. Ma parlare è importante, è solo parlando e ascoltando che puoi restare vivo tra vivi. Come chi è nel lutto ha difficoltà a parlare con noi, così noi abbiamo difficoltà a parlare con lui. Non abbiamo le parole, le parole che abbiamo sono sbagliate. È difficile trovare nella lingua parole leggere e delicate, che tocchino le ferite senza irritarle. Perciò gli psicologi hanno cercato una comunicazione prima o oltre le parole, che comunichi senza parlare. La musica. Nella stanza del silenzio diffondono una musica dolce, delicata, in sottofondo, che accompagna senza prevaricare, c’è senza esserci. È arte, come la poesia. I bambini compagni di scuola disegnano su tutte le pareti, con pennarelli o gessi: è arte infantile, con quell’arte comunicano uno con l’altro, e tutti con noi. Il pericolo è che si chiudano e non dicano niente: è questo che non deve succedere. «Stanza del silenzio» chiamano lo spazio predisposto per l’ascolto. Poiché lì reimpari a parlare, potrebbero anche chiamarlo stanza della parola. Mi correggo: della Parola.