C’era una volta una Turchia rigidamente ancorata ai pilastri fissati da Mustafa Kemal Atatürk negli anni Venti dello scorso secolo: un Paese rigidamente laico e secolarizzato, perfino tetragono nell’impedire certe manifestazioni della religiosità, come il divieto del velo nelle università e nei luoghi pubblici. Un Paese solidamente agganciato all’Occidente tramite la Nato, di cui era membro fedele. Il kemalismo aveva quasi finito con il fare dei movimenti di ispirazione islamica solo una sorta di “controcultura religiosa”, legata al mondo tradizionale e rurale o di opposizione alla classe politica e militare dominante.
È una Turchia che sembra non esistere più, scoloritasi lentamente negli anni del governo del premier islamista Recep Tayyip Erdogan, al potere ormai da più di un decennio con il suo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp). Se l’islam era stato a lungo l’identità nascosta dello Stato laicizzato, oggi la sua presenza è sempre più percepibile e manifesta a ogni livello sociale e politico: dalla presidenza della Repubblica a quella del governo, alla “normalizzazione” delle Forze armate turche – tradizionalmente il bastione a protezione del kemalismo – alle numerose leggi e disposizioni di ispirazione islamica.
Ormai reintrodotto il velo negli spazi pubblici, si assiste in questi mesi a una campagna governativa “a favore di un comportamento morale” molto ambigua. Sono – ad esempio – scoraggiate le coppie dal baciarsi o tenersi per mano, mentre sono stati molto criticati i tentativi di indurre le hostess della Turkish Airlines a ridurre il trucco e ad adottare divise ritenute più consone a un Paese musulmano (ma da molti considerate solo goffe e scomode). Pochi giorni fa infine il Parlamento ha introdotto severe limitazioni alle vendita degli alcolici, mentre la stretta governativa è arrivata anche sui programmi televisivi. Insomma, molti turchi temono che Erdogan stia pianificando una completa trasformazione del Paese, allineandolo progressivamente alle altre nazioni musulmane del Medio Oriente. Un’accusa che il primo ministro ha sempre rifiutato: egli si definisce a capo di un partito «conservatore democratico», che ha prosperato grazie alla democrazia e che è quindi a essa solidamente ancorato.
Tuttavia, si moltiplicano le preoccupazioni di chi ritiene che il sistema democratico per l’Akp sia solo il mezzo, e non lo scopo, e che l’obiettivo ultimo sia quello di una piena islamizzazione della Turchia, pur condotta con passo felpato, senza strappi e per lenta osmosi. È un interrogativo cruciale, dato che il governo Erdogan è stato spesso considerato – negli anni recenti – come la prova che l’islam politico moderato possa inserirsi senza problemi in un contesto democratico.
Purtroppo, pochi aggettivi riescono a essere scivolosi e imprecisi come “moderato”: un termine che contiene in sé un valore positivo intrinseco, un pre-giudizio rassicurante. Ma che dipende più dalle percezioni e dalle inclinazioni di chi lo attribuisce che dalle azioni reali di chi così viene etichettato. Un termine molto più realistico per definire l’islamismo politico turco, probabilmente, è “prudente”. Suonerà per qualcuno ingeneroso, ma guardando alle mosse di Erdogan non si può non notare la cautela dei suoi primi anni, attento com’è stato a evitare gli azzardi del suo predecessore, Necmettin Erbakan, costretto alle dimissioni dai militari. Ora che le resistenze laiche sembrano essere spezzate, i passi verso una islamizzazione degli spazi pubblici e socio-culturali sembrano farsi più spediti. Passo dopo passo, decisione dopo decisione, provocazione dopo provocazione, il ponte storico fra Oriente e Occidente che è la Turchia sembra ora pencolare un po’ di più verso Est. Ma, per chi vuole continuare a vedere le cose con un pregiudizio positivo, si è inclinato solo “moderatamente”.