Impegno civile. L'anima responsabile del cinema tra i film visti al Festival di Cannes
P. Favino e F. Di Leva in una scena di 'Nostalgia', di M. Martone
Pochi giorni fa si sono chiusi i battenti sul festival di Cannes, e come avviene quasi sempre, i verdetti della giuria hanno lasciato più di una perplessità. Molti sono d’accordo sul fatto che diversi dei film premiati, a cominciare dalla satira di Ruben Ostlund sui ricchi e il capitalismo, Triangle of Sadness, che ha vinto la Palma d’Oro, non erano veramente i migliori, ma forse sono stati il frutto di compromessi di una giuria che dai rumors filtrati è sembrata molto divisa.
È quindi interessante allargare lo sguardo ad altri film che magari non hanno ottenuto nulla nelle premiazioni, ma che comunque sono opere interessanti e danno segnali su dove si orientano – se non la produzione europea o magari mondiale – almeno le scelte dei selezionatori di un festival importante come quello di Cannes. Ogni resoconto, date queste premesse, è inevitabilmente parziale, ma ci sembra di poter rilevare che le scelte di quest’anno abbiano premiato il cinema come mezzo 'responsabile', come strumento culturale (e quindi inevitabilmente anche politico) per inquadrare, affrontare e risolvere problemi sociali importanti, e con una forte componente di empowerment femminile.
Iniziando da casa nostra, una sorpresa sicuramente positiva è stata il film di Mario Martone Nostalgia. Forse pensato anche come veicolo per la performance di Pierfrancesco Favino, un attore di ormai grande maturità artistica e di indiscussa personalità, il film racconta assai bene di un personaggio che vuole prendersi finalmente le proprie responsabilità. Nostalgia, scritto dal regista con Ippolita di Majo e tratto liberamente da un romanzo di Ermanno Rea, è la storia di un uomo che, partito da Napoli a quindici anni, e dopo aver fatto fortuna in Libano e in Egitto, torna per rimanere alcuni giorni e salutare la madre, ma poco a poco la città – in concreto i quartieri spagnoli dove è nato e cresciuto – lo ammalia sempre di più, i ricordi tornano, le emozioni riaffiorano, e il personaggio decide di fare i conti con il passato e rimanere a Napoli.
Uno degli incontri più significativi è con un sacerdote, educatore e promotore della crescita di giovani da sottrarre alle seduzioni della camorra, una figura molto bella e ispirata a don Antonio Loffredo – vero parroco del rione Sanità a Napoli – che poco a poco sta facendo una vera rivoluzione in quel quartiere. Questo sacerdote aiuterà il protagonista a farsi le domande giuste. Il bell’articolo dedicato al film da Alessandra De Luca su queste stesse pagine riportava anche l’influenza molto importante che ha avuto questo sacerdote su Francesco Di Leva, l’attore che lo ha interpretato, che ha ritrovato la fede e la pratica cristiana. Da notare, dopo anni in cui la serie Gomorra ha esercitato un fascino ambiguo nel rendere i malavitosi una sorta di eroi (magari maledetti, ma sempre eroi), che qui invece la figura del capo camorrista, 'O Malommo', ottimamente interpretato da Tommaso Ragno, è una figura che è vista con una crudezza che non fa sconti: un uomo solo, deluso dalla vita, amareggiato, diffidente, insensibile ai richiami di un’amicizia antica e ormai avvolto in un decadimento morale che lo rendono tutto tranne che affascinante e appealing per i giovani. Insomma, una presa di posizione forte e fortemente responsabile per un film che si incunea ripetutamente nei vicoli di Napoli, svelando non solo location reali e inedite, ma anche coinvolgendo in ruoli minori e come comparse molti abitanti di questi quartieri, che sono un mondo a parte rispetto a una Napoli oggi più moderna, ma che nel film non compare mai.
Ha vinto invece il premio come miglior attrice protagonista Zahra Amir Ebrahimi, che in Holy Spider interpreta una giornalista che indaga su un assassino di prostitute, paradossalmente visto come un 'purificatore della società' da una parte importante dell’opinione pubblica della città iraniana dove si svolgono i fatti, ispirati a vicende reali di inizio millennio... Qui è il confronto della protagonista con una mentalità integralista che arriva addirittura a giustificare gli omicidi. Il regista è iraniano, ma il film, pur ambientato in Iran, è stato girato e prodotto in altri Paesi. Un carattere nobilmente politico ha anche Tori e Lokita, la più recente fatica dei fratelli Dardenne, registi belgi in passato due volte premiati con la Palma d’Oro.
Qui il film ha ottenuto un 'Premio speciale' per il 75mo anniversario del Festival, una sorta di omaggio a due autori molto amati. Alcuni giornali hanno parlato di accoglienza freddina, ma siamo testimoni dei lunghissimi e calorosissimi applausi e ovazioni che per diversi minuti hanno seguito la proiezione ufficiale di un film, che magari è semplice narrativamente, non ha grandi innovazioni formali, ma 'prende' emotivamente e fa appassionare alle vicende dei due protagonisti: l’adolescente Lokita e il bambino Tori, che hanno stretto una solidissima amicizia nel viaggio che li ha portati dall’Africa in Europa e ora si presentano come fratello e sorella. Lokita è una sans papiers e questo la mette in una posizione di debolezza rispetto ai datori di lavoro che vogliono sfruttarla per smerciare prima e poi produrre droga... La dedica dei registi «a tutti i Tori e Lokita» che ci sono nel mondo, spiega il motivo per cui hanno realizzato il film.
Un femminismo intelligente e non ideologico anima altri due film di cinematografie nazionali che negli ultimi decenni si sono imposte tanto nei festival quanto con il pubblico. Era in concorso Leila’s Brothers, del regista iraniano Saeed Roustayi, che racconta di Leila, giovane donna con quattro fratelli ormai adulti, che cerca di smuovere la loro superficialità, il loro infantilismo, la loro incapacità di uscire da una situazione di crisi (in modo diverso sono sostanzialmente tutti disoccupati) come pure si oppone alla sudditanza dell’anziano padre a norme sociali che chiedono di apparire ricchi e munifici per poter conquistare il ruolo di patriarca del clan famigliare di appartenenza... Nella Semaine de la critique è stato invece proiettato un film coreano, definito dall’influente 'The Hollywood Reporter', il 'gioiello nascosto' del festival, Next Sohee. Anche qui ispirato a fatti reali, scritto e diretto da una donna, Jung Joori, e in cui i personaggi principali sono due donne. La giovane Sohee, studentessa vivace e impulsiva che ama danzare, viene inviata dalla propria scuola a fare alternanza scuola/lavoro in un call center dove le pressioni per ottenere risultati sono così forti e insistite da mettere la ragazza in grave crisi, in un sistema che sfrutta manodopera giovanile e viene portato in modo quasi automatico a fare pressioni sugli alunni perché comunque resistano, creando un clima assai pericoloso per la salute psicologica dei ragazzi.
Anche nei cortometraggi abbiamo potuto notare la promozione di registe donne e di tematiche femminili: ne citiamo solo uno, un bel film spagnolo dal titolo Cuerdas (che significa corde vocali, ma cuerdo in spagnolo è anche un aggettivo per dire «sano di mente, solido, forte, resistente»), scritto e diretto dalla giovane regista basca Estibaliz Urresola Solaguren. In una cittadina dei Paesi Baschi che soffre di inquinamento per gli scarichi pesanti di una fabbrica locale, e con un tasso molto alto di tumori, le componenti di un coro amatoriale devono decidere se accettare o meno la sponsorizzazione di questa azienda per le piccole spese che hanno: sono pochi soldi, ma per diverse di loro sarebbe vendersi al 'nemico', alla stessa azienda che ammala i propri famigliari e poi nega indennizzi.
Insomma, problemi veri, donne che si ribellano, e registe e sceneggiatrici che si fanno avanti. Sono segnali, ma interessanti, e anche se poi è Top Gun che fa le centinaia di milioni al botteghino in pochi giorni (260 milioni solo nel primo week end), queste voci troveranno sicuramente chi le ascolta, tanto nei loro Paesi quanto a livello internazionale.