L'amara furia del leader. Guai e forza di Trump
L’avvicinarsi delle elezioni di midterm (6 novembre) sembra produrre nel presidente Trump un accentuarsi della sua già considerevole inclinazione a prendere decisioni strettamente orientate da una logica short term (a breve termine). Il voto di metà mandato (col quale ogni due anni si rinnovano un terzo del Senato, l’intera Camera dei rappresentanti e un corposo numero di governatori) costituisce da sempre un importante appuntamento per misurare la popolarità del presidente, particolarmente significativo quando quest’ultimo è un neo-eletto. È l’occasione nella quale l’inquilino della Casa Bianca si gioca la possibilità di mantenere o conquistare un Congresso a suo favore. Come sappiamo, attualmente il Congresso degli Stati Uniti è del medesimo colore politico del presidente in carica, il quale nel suo primo biennio a capo dell’esecutivo ha contribuito a polarizzare in maniera preoccupante l’elettorato americano.
Nonostante la retorica delle dichiarazioni inaugurali, Donald Trump si sta confermando il presidente di chi lo ha eletto, mentre ben poco ha fatto per conquistare quelli che non lo hanno votato. In parte, questo è legato al suo temperamento, alla convinzione pervicace con la quale sostiene le sue idee e alla natura radicale di molti dei suoi convincimenti. In parte, invece, deriva dall’assenza di leader minimamente carismatici tra i suoi oppositori, sia interni sia esterni.
Tra i repubblicani, la scomparsa del senatore John McCain lascia il partito nelle condizioni di frammentazione che consentirono a Trump di sbaragliare tutti i rivali con i quali i notabili del Grand Old Party cercarono di bloccarne la corsa alla Casa Bianca. Tra i democratici, ancora non si vede chi potrebbe prendere il posto di Barack Obama (tralasciando Hillary Clinton) per ricomporne le file. Bernie Senders, l’anziano senatore del Vermont, praticamente un indipendente, escluso nelle primarie democratiche proprio dalla macchina elettorale di Clinton (e dai suoi maneggi), continua a sostenere posizioni ragionevoli e condivisibili, ma è ormai fuori dai giochi.
Eppure, Trump non sembra tranquillo. Al punto che si sta producendo in una serie di decisioni tutte dettate dal "fare in fretta, anzi fare subito", a prescindere che poi tutto debba essere altrettanto rapidamente disfatto. La più clamorosa è stata quella del nuovo trattato commerciale con il Messico, stipulato con il presidente uscente del Paese a sud del Rio Bravo (o Rio Grande), pur nella consapevolezza che il neoeletto non intende avallarlo, spalleggiato in questo dal nuovo Parlamento di Città del Messico, che quasi sicuramente non lo ratificherà.
Il piccolo Nafta (che non contempla il Canada del premier Trudeau, insultato da Trump in coda al G7 del Quebec) nasce già morto, ma il presidente Trump ha potuto comunque "annunciarne la nascita", che sembra essere l’unica cosa a interessargli. Analoghe considerazioni possono essere svolte nei confronti dei dazi verso la Cina e la Ue, la minaccia di sanzioni contro i giganti informatici della Silicon Valley, la politica erratica verso la Corea del Nord, la denuncia dell’intesa sul nucleare con l’Iran, lo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme.
La "politica dell’annuncio" non l’ha certo inventata Trump: e noi italiani ne sappiamo qualcosa da tempo. Per molti aspetti essa è fisiologica nella nostra epoca: cerca di saldare i tempi lunghi che richiedono l’adozione, l’implementazione e la manifestazione delle decisioni politiche con quelli sincopati della comunicazione digitale. Ma nel caso di Trump la sensazione è che la sostanziale noncuranza per le conseguenze di politiche adottate sotto la mera pressione elettoralistica dell’urgenza vada oltre il consueto. Qui non si tratta solo di annunci, infatti, ma di veri e propri atti politici che renderanno poi più difficile, impervia e costosa la loro correzione.
Che un presidente in carica mentre il Pil americano letteralmente vola (+4.1% nel secondo trimestre 2018 dopo un +2.2% nei primi tre mesi dell’anno in corso, consumi al +4% ed esportazioni al +9,3% nonostante i dazi, Dow Jones a 26.000 punti, a un passo dal record storico di gennaio) debba preoccuparsi delle elezioni di midterm la dice lunga su quanto la sua visione, il suo stile e le sue decisioni stiano sempre più spaccando in due l’America. Ma ci rammenta anche come il rischio di una richiesta di impeachment da parte del procuratore speciale Mueller sia sempre meno improbabile e renda estremamente nervoso il presidente, che non si è trattenuto dall’evocare «conseguenze epocali», alludendo persino a scenari da guerra civile, nel caso fosse costretto a lasciare anticipatamente la Casa Bianca.