La certezza scientifica sulle spoglie di Placido Rizzotto, a 64 anni dalla sua uccisione con mani mafiose, ha il profumo e il sapore della memoria che non si sfibra nelle curve pericolose della storia. Il 10 marzo del 1948 la mafia si liberò del sindacalista socialista che guidava i braccianti nelle lotte per la terra. La sua morte era il passaporto per la scalata a Cosa Nostra di Luciano Liggio, il mafioso destinato a segnare il passaggio, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, dalla vecchia mafia rurale a quella urbana. Liggio, il boss di Corleone. Sì, proprio lui, il padre di tutti i mafiosi "moderni". Lui doveva versare il sangue di quell’uomo di 34 anni che osava aizzare i contadini a occupare le terre controllate dalla mafia agraria. Lui doveva guadagnare alla mafia il tempo necessario per riprogettare il proprio futuro e rimetterla in asse con i tempi nuovi e progressivi. Sappiamo tutti come è andata a finire, con i corleonesi ancora protagonisti, negli anni Novanta, della guerra dichiarata allo Stato. Una guerra sanguinosa combattuta dalla mafia stragista che è costata la vita a uomini come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Se non fosse stato ammazzato a Palermo, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro, forse oggi Dalla Chiesa potrebbe rivendicare di aver visto giusto tanti anni fa. Quando, da giovane tenente dei carabinieri, indagando sull’uccisione di Rizzotto, si era fatto la convinzione che il suo corpo fosse stato eliminato in qualche cimitero di mafia. Appunto quella foiba di Rocca Busambra, dove solo tre anni fa, sono stati ritrovati i resti del sindacalista. La memoria ha vinto. La mafia ha perso. La memoria ha vinto grazie alle moderne ricerche genetiche, ovvero grazie ai 'ricordi' custoditi nel Dna. Un autentico paradosso per la mafia che ha sempre voluto annientare la memoria dei suoi 'nemici', basti pensare a Mauro De Mauro o al piccolo Giuseppe Di Matteo, ma non può cancellarne il Dna. Il giorno in cui Rizzotto potrà avere una sepoltura, il giorno in cui su una lapide potrà essere scritto il suo nome, il giorno in cui i professori accompagneranno gli studenti sulla sua tomba per spiegare chi era quell’uomo coraggioso, allora la mafia incasserà un altro brutto colpo. Com’è accaduto con 'l’albero della Memoria' di Palermo, per non dimenticare le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Come accade con la tomba di don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio, il cui sacrificio è inciso nelle coscienze dei siciliani, dei meridionali, di tutti gli italiani. Il Sud ha bisogno assoluto di tanta memoria buona come segno indissolubile di una vita buona. Di memoria cattiva, impastata di sangue e violenze, di sopraffazioni e silenzi omertosi, di connivenze e grumi maleodoranti di interessi inconfessabili, sono pieni gli archivi e le cronache. Ma la memoria buona ha la forza della sorgente che torna a zampillare contro ogni insabbiamento. La certezza per la gente del Sud di avere una tomba su cui pregare e ricordare, è la rivincita sopra ogni offesa della storia. Quella nostra storia sociale fatta di sudore e di lotte contadine, di slanci e di ricadute, di avventurose lotte socialiste e di profonde radici cristiane, di ristrette cerchie agiate e di masse incolte e impoverite. È la nostra vita, il nostro passato remoto. Di ex terroni che hanno inseguito il sogno di diventare italiani "come gli altri" e che l’ottusa violenza mafiosa hanno ricacciato indietro, essa sì in un angolo oscuro della storia. Placido Rizzotto, segretario socialista della Camera del lavoro di Corleone, ex partigiano delle Brigate Garibaldi in Carnia, un uomo del Sud che aveva combattuto per la liberazione del Nord, certamente da lassù ora può sorridere. E può finalmente riposare in pace, per la serenità ritrovata dei suoi familiari, per la pace sottoscritta da tutti noi con la sua memoria. E con la memoria di un Sud che nel bene e nel male forse non c’è più, ma che è pur sempre il nostro Sud.