Lavoro /1. L'alternativa è costruire un'economia collettiva
Il lavoro è in fase di profonda trasformazione ed è compito di tutti tenere gli occhi bene aperti per evitare di trovarci in situazioni di difficile gestione. Ancora una volta il pericolo si chiama disoccupazione tecnologica, non certo una novità per il capitalismo, ma la quarta rivoluzione industriale oggi in atto, potrebbe avere effetti più dirompenti delle precedenti. La nuova frontiera è rappresentata dai robot e dall’intelligenza artificiale, la così detta smart technology che ci sta portando verso la smart society , la società definita intelligente perché gestita dalle macchine. Con sicuri effetti positivi secondo il World Economic Forum perché «i nuovi dispositivi ci aiuteranno a gestire meglio non solo i problemi di natura domestica, urbana e commerciale, ma anche quelli legati ai cambiamenti climatici». Numerose ricerche, tuttavia, ci avvertono che la smart technology avrà anche ricadute preoccupanti sul lavoro. Per ammissione generale il settore che ne risentirà di più sarà quello manifatturiero, e per ironia della sorte i lavoratori maggiormente a rischio saranno quelli dei Paesi di recente industrializzazione.
Foxconn, l’azienda taiwanese che produce quasi la metà dei componenti elettronici destinati al consumo di massa e che ha tra i suoi clienti tutti i colossi del settore, da Apple a Microsoft, ha già intrapreso una lenta, ma costante, marcia verso l’automatizzazione. Nel 2016 ha ridotto la forza lavoro del suo stabilimento cinese di Kunshan da 110 mila a 50 mila persone grazie all’introduzione di robot che ha battezzato Foxbot. Ma il suo piano è rimpiazzare il 70% dei dipendenti (un milione sparsi per tutto il globo) lasciando negli stabilimenti solo un numero minimo di professionisti addetti ai controlli. In ambito tessile sono già stati messi a punto robot capaci di tagliare e assemblare vestiti rendendo superflui milioni di lavoratrici asiatiche e mandando contemporaneamente in fumo i sogni di sviluppo occupazionale perseguiti da un Paese come l’Etiopia che ambiva a diventare la 'Cina dell’Africa'. Uno studio condotto nel 2016 dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), su Cambogia, Indonesia, Vietnam, Filippine e Tailandia, prevede che a causa della tecnologia, questi Paesi avranno una perdita del 56% dei posti di lavoro. Praticamente tre su cinque. In maniera egoistica potremmo alzare le spalle dicendoci che l’Asia è lontana, ma in un mondo globalizzato ciò che succede in ogni punto del globo si ripercuote inevitabilmente sulle economie di tutti gli altri Paesi. E come se non bastasse, si prevedono perdite significative anche nei Paesi occidentali pur avendo essi una struttura produttiva fortemente sbilanciata verso i servizi.
Ma l’innovazione non conosce confini, e già fanno parlare di sé i robot che negli alberghi fanno servizio in camera, o le macchine che McDonald’s sta piazzando nei propri fast food capaci di produrre il panino indicato dal cliente al semplice tocco di schermo. Del resto l’impresa australiana Fastbrick Robotics ha sviluppato un robot che può mettere in posa mille mattoni l’ora, l’equivalente di quanto riuscirebbero a fare due muratori in un giorno. Per non parlare del robot elaborato dalla svedese DeLaval International, che permette alle mucche di mungersi da sole al bisogno. Quanto agli ospedali già si paventano macchine che all’ingresso del pronto soccorso ci misurano i parametri vitali per stabilire il nostro grado di gravità. In conclusione: McKensey stima che negli Stati Uniti il 51% degli occupati sono a rischio tecnologico, mentre in Europa saremmo al 35%. Gli ottimisti sono convinti che tanti posti perderemo, tanti ne verranno creati, ma considerato che già oggi in Italia, fra 'ufficiali' e 'scoraggiati', abbiamo 6 milioni di disoccupati, 22% della forza lavoro, e che molti di coloro che risultano occupati lavorano parttime, non è azzardato pensare che stiamo andando verso un futuro in cui le imprese offriranno sempre meno lavoro. E se per alcune di loro il discorso finisce lì, soddisfatte anzi dell’accresciuta produttività che si trasforma in crescita di profitti, si pone al contrario un serio problema sociale, morale e politico per il rischio di andare verso una società sempre più polarizzata con pochi occupati capaci di alti livelli di acquisto e molti disoccupati che fanno la fame. Che fare? La prima soluzione che viene alla mente si chiama redistribuzione, con due possibili opzioni: redistribuzione del lavoro, tramite riduzione dell’orario di lavoro, o redistribuzione del reddito, tramite tassazione della produzione e conseguente istituzione di un 'reddito di esistenza'.
Ovviamente sia una soluzione che l’altra aprono una serie di questioni morali, economiche e fiscali di non facile soluzione, ma il miglior modo per risolvere i problemi è affrontarli, non mettere la testa sotto la sabbia. Tenendo comunque a mente che esiste anche una terza possibilità che si chiama 'economia collettiva'. Una volta Matteo Renzi parlò di «lavoro di cittadinanza», ma non ne precisò il contenuto. Mi piace pensare che volesse riferirsi al fatto che accanto ai bisogni esaudibili sul mercato, esistono molti altri bisogni esaudibili solo attraverso la solidarietà collettiva. Potremmo parlare di beni comuni, ma anche di diritti. Di tutti quei bisogni, cioè, che la Costituzione si impegna a garantire a tutti indipendentemente dai livelli di reddito. Troppo spesso dimentichiamo che la sicurezza dei fiumi non si compra al supermercato, come dimentichiamo che la dignità umana è di competenza dell’intera collettività. Per cui, accanto al mercato, abbiamo bisogno di una forte economia collettiva funzionante col contributo di tutti per il bene di tutti. È troppo spingere il pensiero oltre l’ostacolo fino a immaginare una sfera pubblica capace di garantire una triplice area di sicurezza: dei diritti, dei beni comuni e dell’occupazione minima garantita? La civiltà di un Paese non si misura oggi né si misurerà domani in base al numero di robot, ma al grado di solidarietà che è capace di mettere in atto.
*Centro Nuovo modello di sviluppo