Populismo giudiziario/3. L'alleanza mass media-pm: mela avvelenata dallo scoop
Quando i giornalisti che nel 1954 seguivano il 'caso Montesi' cominciarono a spifferare quotidianamente gli sviluppi dell’indagine (all’epoca del tutto segreta), contemporaneamente celebrando «l’assoluta riservatezza» del giudice istruttore che la conduceva, scrissero una pagina d’avanguardia nei rapporti tra stampa e magistrati. Il trapasso degenerativo di un rapporto essenziale per la democrazia. Senza il controllo e il pungolo della libera stampa, la giustizia sarebbe asfittica. Le inchieste giornalistiche indagano sulle trasformazioni sociali, i nuovi fenomeni criminali, i lassismi o gli eccessi nella loro repressione. A volte, fanno emergere scandali, magagne nascoste, corruzioni: così stimolando polizia e magistratura ad essere più attente e puntuali nelle loro indagini. I mass media raccontano le sentenze. Ne rendono note le motivazioni: commentandole ed esponendole alla valutazione dei cittadini in nome dei quali la giustizia è amministrata. La massima estensione del diritto di critica verso il lavoro e le decisioni dei magistrati è il prezzo che si deve pagare per un sistema in cui il giudice è assolutamente indipendente e deve render conto delle sue sentenze soltanto ad altri giudici.
Eppure, stampa e televisione possono essere anche un nemico insidioso della giustizia: quando su un fatto di cronaca concentrano la loro attenzione in modo spasmodico; gonfiando il caso, a volte creandolo, premendo sull’indagine, chiedendo accelerazioni, risultati immediati, risposte nette, possibilmente clamorose e degne di un titolo strillato. Le 'campagne di stampa' contro alcune indagini o giudici (che pure, in passato, ci sono state, in modo anche odioso) non sono la cosa più preoccupante per l’indipendenza del magistrato. Perché normalmente queste campagne trovano reazioni in giornali di opposto orientamento. E soprattutto perché, quanto più queste campagne travalicano il corretto esercizio di critica, tanto più suscitano, nella magistratura, reazioni di orgoglio e di difesa della propria indipendenza.
Molto più insidiose sono le campagne di stampa che – di fronte a un crimine clamoroso o denunciando un diffuso malcostume, che suscita giusta indignazione morale – additano il colpevole, invocano risposte del magistrato, tendono a guidarlo su una strada tracciata dagli stessi giornalisti, preparando il palato dei lettori e dei telespettatori a una soluzione indicata come l’unica possibile. Allora, i giornali e gli studi televisivi possono diventare i suscitatori e trascinatori di quelle che già nel 1956 – quando la televisione, appena nata, non era ancora diffusa – il magistrato Domenico Riccardo Peretti Griva chiamava le moderne «folle del Crucifige!». In questi casi, la stampa tende ad assumere un ruolo di guida dell’indagine e a stabilire un percorso 'cogestito' tra giornalisti e magistrati, che – come abbiamo visto – nel 'caso Montesi' si manifestò per la prima volta in modo esemplare. Non sempre l’interferenza sulle indagini si realizza, perché molti più magistrati di quanto si pensi sanno resistere a queste sirene. Ma il rischio c’è sempre. Ed è, oggi, sicuramente superiore che in passato.
A cominciare dalle indagini di terrorismo degli ultimi anni Settanta e poi in modo più clamoroso con la vicenda di Mani Pulite, l’interesse della stampa si è spostato dalla fase dibattimentale del processo a quella delle indagini. Se si rileggono le cronache giudiziarie di cinquant’anni fa, si vedrà che – tranne poche eccezioni – il fascio di luce dell’informazione si concentrava sul dibattimento pubblico: lì era il cuore del processo. Oggi tutto accade prima e l’attenzione dei media è totalmente concentrata sulla fase delle indagini. E quando si arriva al processo – se ci si arriva – spesso le luci dell’informazione sono già spente. Il processo pubblico è, quasi sempre, una notizia vecchia. Non interessa l’accertamento della verità, con il contraddittorio della difesa. Si deve parlare, subito, degli avvisi di garanzia, di cosa hanno detto i testi nel chiuso delle stanze dei pubblici ministeri, delle perquisizioni domiciliari, delle intercettazioni telefoniche (il cui significato è spesso ambiguo e difficilmente interpretabile). Persino la cattura di un imputato è spesso annunciata, preparata, attesa, a volte quasi suggerita. Talmente attesa che, in certi casi, è stata eseguita sotto i fari delle televisioni.
Questa nevrotica anticipazione dei tempi della cronaca ha molti padri: l’accorciamento di tutti i tempi della nostra vita quotidiana e dunque anche dei tempi della comunicazione; una maggior importanza delle ricadute, economiche e politiche, di molte indagini; la riforma del processo del 1989, che ha fatto cadere il segreto istruttorio; l’introduzione del patteggiamento e del rito abbreviato, che eliminano il dibattimento pubblico e vengono celebrati in camera di consiglio, senza pubblico e stampa. Ma è indubbio che il fattore più rilevante di questa tendenza è la maggior consuetudine di rapporti che, a partire dai primi anni Novanta, si è stabilita tra giornalisti e magistrati. È una consuetudine che offre al pubblico ministero una mela avvelenata; perché l’enfatizzazione della notizia di cronaca sulle indagini da lui condotte costituisce una tentazione quasi irresistibile.
Ascoltare il tam-tam dei media accompagnare e a volte anticipare i propri atti istruttori può diventare, per il pubblico ministero, una piccola droga, che lo spinge a diffondere le notizie, a fissare l’agenda delle proprie indagini tendendo l’orecchio alle reazioni dei media e seguendo sentieri tracciati da altri. Gli fa perdere la traccia della sua unica funzione: accertare responsabilità individuali per fatti specifici. E gli fa accarezzare l’idea di poter acquisire le luci della ribalta e il conseguente consenso popolare, senza pagare il prezzo della responsabilità, a cui, per esempio, qualunque uomo politico non può sfuggire: la necessità di conquistarsi faticosamente il consenso del corpo elettorale, la possibile perdita di quel consenso. D’altro canto, il ricevere le notizie da una fonte giudiziaria spinge il giornalista a enfatizzarne la portata e ad appiattirsi su quella comoda fonte. È una spirale che si autoalimenta e reca danni anche all’informazione: aumentandone il sensazionalismo e di conseguenza minandone, alla lunga, la credibilità.
Sarà la storia a giudicare se la stagione apertasi nel 1992 abbia avuto, sulla giustizia italiana, più effetti positivi o negativi. Noi che ne siamo stati testimoni ci ostiniamo a credere che, tirate le somme, le luci prevalgano sulle ombre. Ma non dimenticheremo mai l’accusa e maledizione che, a proposito del connubio magistrati-mass media, Sergio Moroni lanciò nella sua lettera-testamento all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano: aver creato un «un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito di vittime sacrificali». Ogni pubblico ministero cosciente e ogni giornalista dovrebbero, ogni tanto, rileggersi quel testamento. (3 - continua)