Il paradosso della tecnologia. L’algoritmo del calcio non è la solita lotteria
Il mondo del calcio si è dotato di un nuovo tormentone: si chiama “algoritmo”. L’algoritmo è per tutti gli appassionati una specie di spettro, perché qualora venisse utilizzato vorrebbe dire che anche il campionato di Serie A non giungerebbe al termine giocando sul campo tutte le gare sospese per il Covid–19. L’algoritmo, infatti, è la formula elaborata dalla Federazione per determinare, in caso di un’ulteriore sospensione forzata, vincitori e sconfitti, retrocessioni, promozioni, posizioni per l’accesso alle coppe e quant’altro serve per definire ciò verso cui tutto è proteso: la classifica finale. L’algoritmo è già stato utilizzato per chiudere i campionati “minori”, Legapro e serie D.
Ma in serie A e B le emozioni in gioco sono più intense e complesse. E facendo i conti con l’algoritmo qualcuno potrebbe perdere la posizione nella classifica attuale mentre qualcun altro potrebbe avanzare oltre i propri meriti, senza giocare. Ora, provate solo a pensare a quali reazioni generalmente animano il pianeta calcio quando è il campo a fare il risultato – al netto della terna arbitrale, s’intende – e immaginate cosa potrebbe accadere qualora l’algoritmo decidesse vittorie e sconfitte senza che il pallone rotoli: una gioia senza festa, una delusione senza lutto.
Il dramma dell’algoritmo è però nel ruolo deterministico che gli si attribuisce, figlio di quella deriva tecnocratica che si è impossessata del mondo del pallone. Sì, perché l’algoritmo, che deve il nome al suo inventore, il matematico arabo Muhammad al–Kwarizmi, non è altro che una formuletta molto simile a quelle che il calcio applica da sempre per attribuire vittorie o sconfitte in caso di parità: scontri diretti, gol fatti o subiti in casa o fuori, e via dicendo.
Con l’algoritmo il calcolo è solo un po’ più complicato: la media dei punti in casa si moltiplica per le partite che mancano in casa, la media dei punti in trasferta si moltiplica per le partite che mancano in trasferta, e la somma di questi due risultati si aggiunge ai punti conquistati fino a quel momento. Dunque non sono né un computer, né una macchina, né tantomeno un’entità astratta a determinare il risultato, bensì le persone che hanno fissato il criterio. Richiamare insistentemente l’algoritmo è trasformare nient’altro che un’opzione politica in una sentenza estranea alla volontà umana.
È la stessa deriva che sta rivoluzionando il pallone dopo l’introduzione della Var: la Video Assistance Referee avrebbe dovuto essere una tecnologia di ausilio alle valutazioni dei giudici di gara, invece si sta inesorabilmente trasformando in uno strumento ancora piuttosto arbitrario di giudizio, tuttavia inattaccabile per l’aura tecnologica e scientista che le è attribuita, antitesi del senso stesso del calcio. Tutto è però un paradosso: all’esame del Var nemmeno Achille, come suggeriva Zenone, raggiungerebbe mai la tartaruga, pur se la vita reale indica altro.
E così al giudizio dell’algoritmo anche la vittoria o la sconfitta si manifestano quale volere di un’entità superiore, espressione della potenza di un microchip, mentre ai tifosi– adepti è concesso solo di esultare per la fortuna inattesa o piangere per il torto subito. Una monetina non sarebbe più giusta e assolverebbe l’essere umano dalla responsabilità che gli spetta. Meglio giocarsela ai rigori, allora: 11 metri, in tempi di Covid, fanno paura solo al virus.