C’è un direttore di carcere che, dopo dodici anni, viene promosso a un incarico superiore e lascia la "sua" casa circondariale: il Lorusso e Cutugno di Torino. Decidi di andarlo a trovare, prima della partenza, e di visitare con lui, Pietro Buffa, il carcere: non solo le stanze per gli interrogatori normalmente frequentate da avvocati e magistrati ma anche le sezioni, le celle, i laboratori, l’asilo della sezione femminile. Non lo facevi da troppi anni, anche se il tuo lavoro è quello di cercare di far finire in galera i "delinquenti".Sai quello che ti aspetta. Conosci le cifre: la struttura, costruita negli anni 80 per non più di 900 detenuti, ne ospita abitualmente più di 1.400. Il 64% sono cittadini stranieri, di 60 nazionalità diverse. Ciononostante, quel carcere è un modello organizzativo e umano. Per le persone che ci lavorano. Per la comunicazione che ha con l’esterno, attraverso corsi di formazione e attività culturali di ogni tipo. Per i contatti con scuola, università, conservatorio. Per le 8 cooperative, che ogni anno occupano almeno 100 detenuti che producono e vendono pane, dolci, pizze, giocattoli, arredi in legno che abbelliscono piazze e vie di Torino. Eppure, anche se sai già queste cose, la visita ti sorprende e ti insegna.
Non siamo attesi. Lo capisci da come i detenuti accolgono il direttore e magari, quando ti affacci alla loro cella, si scusano – come potrebbero fare vecchi amici di famiglia – per il «disordine che trovate» (e invece la cella è pulita e ordinatissima e «il disordine» è soltanto il pantalone di una tuta abbandonata sul lettino). Capisci che tra quegli uomini ristretti in carcere e chi ci lavora c’è un rapporto umano costante. Lo vedi da come parlano: con un rispetto profondo, che non impedisce loro di lamentarsi di qualcosa che non funziona, di rivendicare un diritto non soddisfatto, di scherzare sui risultati della squadra di calcio.
È chiaro che l’autorevolezza del direttore e del personale è nutrita dal rispetto profondo con cui i detenuti sono trattati, dalla dignità che ogni giorno è loro riconosciuta. Una cosa soprattutto colpisce: la fierezza con cui i lavoranti delle cooperative parlano del loro mestiere. È una fierezza che leggi negli sguardi quando ti raccontano il lavoro, ti mostrano i prodotti, ti spiegano come li vendono all’esterno; o quando un detenuto insiste perché ti fermi ancora un minuto a vedere il magazzino delle materie prime utilizzate nel suo laboratorio («Tutta roba di prima qualità»).Cerchi di capire meglio la ricetta di un simile miracolo: e scopri che molto poco "viene da Roma"; che quasi tutto si fonda sull’inventiva, l’entusiasmo, la dedizione di chi nel carcere lavora e, spesso, sulle idee nuove che i detenuti propongono e, insieme all’amministrazione, realizzano (come quel ring per la boxe, che inizialmente lasciò un po’ perplesso il direttore e poi invece si rivelò uno dei migliori successi). E pensi che aveva ragione Arturo Carlo Jemolo quando insisteva a dire che le leggi contano fino a un certo punto: che la peggiore delle leggi può essere migliorata da un’interpretazione ispirata al buon senso e allo stesso modo la migliore riforma può essere male applicata.Quel che più conta è la Pubblica Amministrazione: gli uomini e le donne che la incarnano, la loro cultura, la tradizione che li sorregge e che con loro si evolve. Esci da quel carcere e ti senti più ricco. E ti trovi a pensare che allora è proprio vero che il carcere può essere non mera segregazione. Che quell’articolo 27 della Costituzione, che ci ricorda Cesare Beccaria e ci rammenta che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, può non essere utopia. Ma, perché questo accada, il carcere deve essere aperto: deve respirare con la città che lo circonda, far parte del suo tessuto sociale, comunicare con la sua vita. Deve far intravvedere, in fondo al tunnel, una luce di speranza.
Deve ospitare persone che in questa speranza credano.