Il discorso. Laici senza paura di sbagliare
Tocca a me. Possono bastare queste parole per cambiare marcia nella vita, e trasformare il proprio ruolo: da spettatore di imprese altrui a protagonista, da gregario in attesa di ordini ad apripista creativo. Dal Vaticano II in qua, il laicato cattolico ha oscillato tra questi due estremi, cercando con fatica una posizione che non fosse più quella della truppa che si muove solo in presenza di disposizioni chiare, e senza farsi troppe domande, ma neppure l’emancipazione orgogliosa e autocompiaciuta di chi si chiama fuori dalla famiglia di cui fa parte. Una ricerca continua di un’identità definita e inequivoca, non desunta da altre – i sacerdoti, i religiosi, i consacrati... –, dettata da 'ciò che non si è', o inventata dal nulla, perché il Battesimo è già sufficiente a tracciare il percorso di chi è cristiano senza bisogno di aggettivi. E in questo nome ha già tutto il bagaglio e la mappa che gli servono per il viaggio.
Ai Pontefici che hanno tracciato la strada nel dopo-Concilio si sta aggiungendo col suo peculiare stile papa Francesco, che chiudendo ieri l’esperienza cinquantennale del Pontificio Consiglio dei laici (chiamato da settembre a prendere la forma e il passo di un dicastero che avrà come «campi privilegiati di lavoro la famiglia e la difesa della vita») ha spiegato di quali laici oggi «abbiamo bisogno» per raccogliere «le nuove sfide che la realtà ci presenta». E nel tracciarne il profilo ha scolpito cinque caratteri, da mandare a mente: donne e uomini che «rischino», «si sporchino le mani», «non abbiano paura di sbagliare», coltivino una «visione del futuro» e non siano «chiusi nelle piccolezze della vita». Detto con un’immagine, quelli che il Papa ha in mente sono laici che «osano sognare», capaci di dar corpo alla «forza di nuove visioni apostoliche» per tener dietro alle «novità di Dio, che ci sorprendono e ci superano, ma mai ci deludono».
Grandezza d’animo e coraggio contrastano nel cuore e nell’intelligenza di questi discepoli del ventunesimo secolo il ripiegamento in un cortile privato confortante eppure problematico cui ci spinge con inviti suadenti una cultura che esalta l’istante, l’emotività, l’indifferenza, senza dirci che così la vita s’impantana. E il cristiano disperde ciò che gli dà luce e sapore. Francesco pesca in un immaginario a presa rapida concetti che svegliano l’anima, a cominciare da quell’invito a non aver più paura di sbagliare, rischiando invece i talenti dei quali ciascuno è destinatario e custode – pochi o tanti che siano – e mostrando di aver compreso che lo spessore della vita di fede non dipende da compiti e servizi eseguiti con zelo. L’errore temuto e scongiurato eseguendo un prontuario di disposizioni anche solo immaginate genera servi e non figli, fedeli che masticano amaro ma non sanno pensarsi christifideles per davvero. Come i primi cristiani, né più né meno. La «Chiesa in uscita» che ieri Bergoglio ha descritto una volta in più propone un’appartenenza antica ma sempre fresca: sapersi parte di un popolo del Vangelo che chiama 'casa' ogni angolo del mondo.