Opinioni

Il Papa sulla vita / 2. La vita non è mai un bene di consumo

Roberto Colombo mercoledì 4 luglio 2018

Disposable è il termine che la lingua inglese adotta per indicare ciò che non ha valore permanente, duraturo. Ciò che è a disposizione solo per essere consumato e la cui "vita" è effimera: una bottiglia in plastica di una bibita destinata a finire tra i rifiuti dopo averla sorbita, una penna non ricaricabile da eliminare quando è terminato l’inchiostro, un orologio da polso elettronico la cui riparazione è impossibile o non economica. L’abitudine al consumo dei beni fruibili e talora anche futili – di cui sovrabbondiamo in Occidente, a scapito di altre terre dove donne e uomini mancano dell’indispensabile – secondo la modalità sociale dell’«usa e getta» ci sta facendo correre il rischio serio di considerare anche la stessa vita come un bene di consumo a uso personale, dimenticando che è fatta da un Altro e per un Altro, ed è condivisa con altri al servizio di altri. Lo ha ricordato papa Francesco, il 25 giugno, nel discorso all'Assemblea generale della Pontificia accademia per la Vita: «Escludendo l’altro dal nostro orizzonte, la vita si ripiega su di sé e diventa un bene di consumo».

Questa non è «la sapienza umana della vita», quella che «deve rivolgere più seriamente lo sguardo alla "questione seria" della sua destinazione ultima», prosegue il Santo Padre. «Occorre interrogarsi più a fondo sulla destinazione ultima della vita, capace di restituire dignità e senso al mistero dei suoi affetti più profondi e più sacri». Dignità e senso della vita sono i cardini della bioetica radicata antropologicamente e aperta alla trascendenza di cui ha bisogno la riflessione e l’azione contemporanea nell’età della medicina biotecnologica, delle manipolazioni molecolari e cellulari della vita, delle neuroscienze cognitive, dell’assistenza alla generazione e allo sviluppo, della cura dei malati stabilizzati ma inguaribili, e dei percorsi di riabilitazione dei disabili. Laddove lo stupore e la delicatezza dei processi biologici e delle dinamiche psicologiche fa i conti con il dolore del corpo e la sofferenza dell’animo. «La vita dell’uomo, bella da incantare e fragile da morire, rimanda oltre sé stessa: noi siano infinitamente di più di quello che possiamo fare per noi stessi» e per gli altri, mette in limpida luce papa Bergoglio.
La tenacia nel difendere, custodire e promuovere la vita – un compito di sempre cui le scienze e le tecnologie della vita offrono oggi strumenti potenti e plurivoci un tempo inimmaginabili – mostra il fiato corto se il suo respiro è solo quello umanamente possibile, anche quello "assistito" dal progresso moderno. Una vita, però, che «è anche incredibilmente tenace, di certo per una misteriosa grazia – richiama il Papa – che viene dall’alto». Per questo «la sapienza cristiana deve riaprire con passione e audacia il pensiero della destinazione del genere umano alla vita di Dio [...] con il sempre nuovo incanto di tutte le cose "visibili e invisibili" che sono nascoste nel grembo del Creatore».

Un potente invito a spalancare l’orizzonte dell’antropologia e dell’etica oltre gli angusti orizzonti in cui talora lo ingabbiano i dibattiti pubblici e le discussioni politiche: una «bioetica integrale», una «bioetica globale [che] ci sollecita dunque alla saggezza di un profondo e oggettivo discernimento del valore della vita personale e comunitaria, che deve essere custodito e promosso anche nelle condizioni più difficili», attraverso «una prossimità umana responsabile» del destino trascendente dell’uomo e dell’umanità. Per non essere "complici" del Nemico della vita «con il lavoro sporco della morte, sostenuto dal peccato», ma appassionati testimoni e profeti «dell’irrevocabile dignità della persona umana, così come Dio la ama, dignità di ogni persona in ogni fase e condizione della sua esistenza, nella ricerca delle forme dell’amore e della cura che devono essere rivolte alla sua vulnerabilità e alla sua fragilità", conclude Francesco.
Un messaggio audace per il nostro tempo. La gioiosa audacia del Vangelo della vita che sfida la triste omologazione del pensiero dominato dal narcisismo e dalla paura «che ci condanna a diventare uomini-specchio e donne-specchio che vedono soltanto sé stessi e niente altro».