Il dialogo Cina-Vaticano. La virtù della pazienza e il buon rischio
Quello cinese è un popolo saggio, molto saggio. Io rispetto tanto la Cina». Da qualche giorno su diversi blog cinesi rimbalzano queste parole di papa Francesco, con molti commenti positivi. Non sono blog di cattolici, ma di gente comune che si è sentita compresa e apprezzata da queste parole di un’intervista rilasciata a Philip Pullella della Reuters. Per i cinesi questo Papa ha saputo svincolare la Chiesa dall’eredità del passato ed è oggi indipendente dall’opinione pubblica occidentale, in un momento di particolare tensione con gli Stati Uniti per i dazi imposti da Trump sui prodotti cinesi. Il portavoce del ministero degli Esteri, a sua volta, ha detto che l’impegno nel dialogo è «massimo», alludendo ad un coinvolgimento delle autorità cinesi a un livello più elevato.
In questa intervista, Francesco ha risposto serenamente ma con fermezza a tutte le obiezioni sollevate nei mesi scorsi. Ha confermato anzitutto che un dialogo «ufficiale» è attualmente in corso (il "South Cina Morning Post" ha scritto di un incontro a inizio giugno). È la prima volta che ne parla dallo scorso gennaio, quando il cardinal Zen mise in dubbio che il Papa fosse pienamente al corrente del dialogo con il governo cinese e che approvasse l’opera dei suoi collaboratori. Allora la sala stampa vaticana smentì in modo netto, ma ora è Francesco stesso che dice: «Sono buoni rapporti e sono riusciti a fare cose buone». «Siamo a buon punto», sintetizza. Contrariamente a voci insistenti, infatti, non ci sono stati rinvii da parte della Santa Sede o ripensamenti da parte cinese.
Con garbo il Papa ha così smentito il cardinal Zen: «Penso che sia un po’ spaventato. Anche l’età forse influisce un po’. È un uomo buono. È venuto a parlare con me, l’ho ricevuto, ma è un po’ spaventato». Come il Papa, invece, avvertono l’esigenza di un avanzamento nel dialogo i vescovi della Cina continentale – sia "clandestini" sia "ufficiali" – e quelli di Hong Kong e Macao, questi ultimi a Roma in visita ad limina. Francesco ha molto a cuore le sorti dei cattolici cinesi e conosce bene le loro difficoltà. Ma queste non sono segno di una nuova persecuzione della Chiesa. Molti problemi recenti – in Henan e altrove – derivano da nuove norme sulle religioni, nella linea della "sinizzazione", a seguito dei cambiamenti introdotti dal Congresso del Partito comunista dello scorso ottobre. Ad aumentare le difficoltà sono indirettamente anche i problemi suscitati da gruppi molto vari, che si autodefiniscono religiosi, ma la cui natura è decisamente lontana da quella della Chiesa cattolica. Il Papa spiega: «Il dialogo è un rischio, ma preferisco il rischio che la sconfitta sicura di non dialogare». Francesco rovescia così le critiche: se il dialogo può comportare rischi, non dialogare sarebbe sicuramente negativo, anzitutto per la Chiesa in Cina. E all’intervistatore che gli parla di due passi avanti e uno indietro risponde: «Per quanto riguarda i tempi, qualcuno dice che sono i tempi cinesi. Io dico che sono i tempi di Dio, avanti, tranquilli». La Santa Sede non sta inseguendo l’agenda cinese, sta seguendo i ritmi della Provvidenza.
Non c’è però solo il dialogo diplomatico, aggiunge il Papa. Ci sono anche canali «periferici», rispetto a quello diplomatico «ufficiale», su cui si sviluppa un dialogo «umano». Rivelano il bisogno dei cinesi di essere rassicurati sulla sincerità e sulla volontà della Santa Sede. Firmare un accordo – al momento solo per le nomine dei vescovi, non per stabilire relazioni diplomatiche – non è tutto: se lo si fa con diffidenza, retropensieri e riserve, diventerà carta straccia alla prima difficoltà. Francesco parla infine di un terzo tipo di dialogo che definisce – sorprendentemente – «il più importante»: è quello culturale. «È la strada tradizionale, come quella dei grandi, come Matteo Ricci». A differenza della visione tutta politica dei suoi critici, il Papa cerca un incontro vero con il popolo cinese, che non può non essere anzitutto culturale, perché evangelizzazione vuol dire anzitutto uomini e donne con mentalità e culture diverse che si parlano e si comprendono. L’importanza dell’accordo diplomatico sta proprio qui: serve ad aprire la strada all’incontro che per Jorge Mario Bergoglio è «Gesù stesso». È la prima cosa da fare non perché sia la più importante, ma perché, se non la si fa, resterebbe chiuse le molte porte che oggi impediscono tale incontro. È questa la «sconfitta sicura»: meglio, di gran lunga, correre qualche rischio.