Opinioni

Repetita iuvant. La «virtù attiva» della pace

Stefania Falasca martedì 10 gennaio 2017

Insistere controcorrente. Repetita iuvant, le cose ripetute aiutano. Non perde di attualità la sentenza latina per il Papa della resistenza e della pace attive nel contesto prospettato ieri al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Soprattutto quando di mezzo c’è che «nessun conflitto può diventare un’abitudine dalla quale sembra quasi che non ci si riesca a separare». Non è forse lecito alla ragione e utile immaginare scenari diversi con gli attori geopolitici che su questioni ed emergenze concrete riconoscono la convenienza e la lungimiranza dell’approccio razionale indicato dal Papa e dalla Santa Sede?


Nel delineare uno sguardo d’insieme sulla situazione mondiale, Francesco è riandato dritto al punto dolente della pace. Negata e lacerata da «conflitti insensati», dalle ingiustizie, dalla violenza terroristica, dalla paura. Suggerendo ancora una volta con una sola, allusiva immagine le connessioni palesi od occulte, ostentate o inconfessabili – comprese quelle tra milizie jihadiste e attori geopolitici operanti sul quadrante mediorientale – che legano e alimentano i conflitti e le carneficine di civili nelle convulsioni dell’attuale scenario internazionale, dalla Libia alla Siria, dall’Ucraina alla Palestina. E più che un discorso ha riconsegnato una sorta di magna carta che non è solo frutto e sintesi articolata del suo magistero e degli orientamenti perseguiti costantemente dall’impegno e dall’azione diplomatica della Santa Sede sulla scacchiera internazionale.


Il punto chiave è la forza di mettere in discussione alla radice l’equilibrio fragile di ciò che noi consideriamo pace, scambiando per pace il nostro quieto vivere. È qui che si scioglie il nodo della tanto discussa sicurezza di un’Europa in preda una crisi di identità e, dunque, a spinte disgregatrici e populiste. Per papa Francesco è dirimente il convincimento che «ogni autorità politica non debba limitarsi a garantire la sicurezza dei propri cittadini – concetto che può facilmente ricondursi a un semplice "quieto vivere" – ma sia chiamata anche a farsi vero promotore e operatore di pace». Perché la pace è una «virtù attiva», che richiede l’impegno e la collaborazione di ogni singola persona e dell’intero corpo sociale nel suo insieme. Come osservava il Concilio Vaticano II, «la pace non è mai qualcosa di raggiunto una volta per tutte, ma è un edificio da costruirsi continuamente», tutelando il bene delle persone, rispettandone la dignità. Edificarla richiede quindi anzitutto di rinunciare alla violenza nel rivendicare i propri diritti. Così si forma lo stile politico della nonviolenza, basato sul primato del diritto e della dignità di ogni persona.


Si costituisce qui una consonanza di visione con la tradizione più nobile della diplomazia vaticana, fatta di realismo, studio approfondito dei contesti e dei problemi da affrontare, ricerca delle soluzioni possibili. Pratica sperimentata, che permette di indicare chiaramente come può essere affrontato dalle politiche dei governi europei il problema migratorio. Lo stesso terrorismo può essere «pienamente sconfitto» con il comune contributo dei leader religiosi e politici, inchiodando chi governa «alla responsabilità di evitare che si formino quelle condizioni che divengono terreno fertile per il dilagare dei fondamentalismi», e declinando tali responsabilità «in adeguate politiche sociali volte a combattere la povertà e cospicui investimenti in ambito educativo e culturale». Perché, come già ripetuto in altre occasioni, è decisivo il ruolo dell’educazione per la pacifica convivenza nelle nostre società ormai irreversibilmente cosmopolite, multiculturali e multireligiose, una prevenzione di quella radicalizzazione che conduce al terrorismo e all’estremismo violento.


La ricerca di attivare questi processi di pace è l’instancabile servizio del Papa per cercare soluzioni alle crisi e anche per togliere ossigeno alla patologia jihadista. L’alternativa è vivere nell’indigenza della paura, che ci condanna all’autismo sociale e culturale. Quella «paura di avere paura», così lucidamente stigmatizzata da Zigmunt Bauman – scomparso proprio ieri – «come ottimo capitale per tutti coloro che la vogliono utilizzare per motivi politici o commerciali».