Opinioni

Crisi svuota culle. Oltre l'inverno demografico

Massimo Calvi giovedì 2 ottobre 2014
C'è un effetto della grande depressione italiana che sta anche alla sua base, che ne è concausa. Trascurato per troppo tempo, oggi incomincia a far suonare più di un allarme: è il crollo della natalità che caratterizza il nostro Paese. Dallo scoppio della "crisi che non finisce", nel 2008, come ha ricordato ieri il Censis, un’Italia già in affanno demografico ha "perso" circa 62mila nati. La ragione di questo svuotamento delle culle non è solo economica, anche se la crisi sta influendo in modo netto. Il dramma è che, con ogni probabilità, il peso si farà sentire sulle nascite ancora per lungo tempo. Una recente ricerca riferita agli Stati Uniti ha dimostrato che un solo anno di recessione può incidere sui tassi di fertilità delle donne per decenni: in pratica la generazione che si trova ad avere 20 anni durante un periodo di Pil negativo vedrà aumentare del 9% il numero di donne che a 40 anni sarà senza figli. L’Italia sta attraversando la sua terza recessione dal 2008, le ragioni per essere preoccupati ci sono tutte. È una crisi che toglie il lavoro, svuota le culle, appiattisce l’orizzonte e costringe a una depressione che non è più solo economica. Se il tasso di fertilità nazionale è sceso all’1,39%, mentre le donne continuano a desiderare "almeno" due figli a testa, il problema esiste: ed è uno spread difficile da accettare. Per questo l’avvio del Tavolo sulla fertilità voluto dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, è un atto saggio e doveroso: mettere in moto un percorso per aiutare le persone a conoscere meglio la dimensione della fertilità, i suoi tempi, e le ragioni che la ostacolano è il primo passo per creare un clima favorevole e rispettoso della verità. Un tentativo, se non altro, di opporsi all’avanzata dell’inverno demografico in Italia e in Europa, che a sua volta è diventato un carburante per la crisi. Un Paese per crescere e offrire opportunità di lavoro ha bisogno anche di bambini, ha bisogno dei consumi costanti e sani che le famiglie possono assicurare, di un numero sufficiente di giovani che hanno interesse a migliorare la propria condizione e, da attivi, di sostenere il welfare degli anziani. Ma se questa, quella che passa dai bambini, è la via per ricostruire anche la fiducia e la speranza nel futuro che la crisi ha logorato, è difficile immaginare che un piano per la natalità possa da solo produrre effetti significativi, considerato il contesto nel quale viene a calarsi. Come si può invitare a far nascere più bambini se una volta che questo avviene le famiglie trovano attorno a loro un ambiente ostile? Pensiamo alle resistenze, non economiche, che impediscono di trasformare il bonus da 80 euro in uno strumento centrato più sui carichi familiari che sui redditi individuali. O al fatto che solo il 13% dei Comuni italiani abbia previsto detrazioni per la Tasi legate al numero dei componenti del nucleo, come era con la vecchia Imu. A Roma le famiglie stanno combattendo contro l’abolizione della gratuità al nido per il terzo figlio – uno sconto raro nella sua generosità e che è venuto meno per allinearsi al resto d’Italia, dove negli ultimi anni le rette di mense e asili nido sono cresciute a livelli insostenibili, con un effetto paradossale: che un’ampia fetta della popolazione ha smesso di pagare questi servizi mentre un’altra ha cessato di usufruirne. Eppure per il Censis la maggioranza degli italiani è convinta che con aiuti mirati, un fisco pro famiglia, nidi accessibili, tariffe alla portata, salirebbe anche la propensione ad avere figli. Non tutto può essere ridotto a calcolo economico, è evidente. Ma la sfida di ricreare un ambiente favorevole, family friendly, è ormai una vera emergenza nazionale. E passa anche da segni concreti che attraversano le frontiere del lavoro e della sua conciliazione con i tempi di vita, degli incentivi diretti e delle priorità politiche nella scala dei diritti. Nel momento in cui lo spread della natalità si rivela determinato dal condizionamento di fattori esterni, viene da dire "di regime", questa è anche una battaglia di libertà.