Opinioni

Un gesto oltre le sbarre dell'egoismo. La vera prigione

Giuseppe Anzani venerdì 29 marzo 2013
«Questo gesto è la carezza di Gesù». Inginocchiarsi a la­vare i piedi ai ragazzi detenuti in un carcere minori­le la sera del Giovedì Santo è, per il papa Francesco, una 'co­sa semplice' come semplice è l’amore. E nessuno di noi vorrà sciuparla, con gli occhi vogliosi di teatro che mutano in eventi i fatti dell’amore. La semplicità è cosa profonda, attingerla è un dono. Un dono evangelico, se è scritto che le cose di Dio sono nascoste ai sapienti e rivelate ai piccoli. In carcere si è ri­petuto l’identico gesto che si fa in cattedrale, e il perché lo ca­pisce la fede, perché la casa di Dio è il mondo, il tempio è la vita. E al Vangelo bisogna ancora rifarsi, per intendere la ra­dicale semplicità di quel gesto liturgico inserito nella grande celebrazione pasquale della Cena del Signore. È questo segno sacro della Cena, infatti, il cuore dell’incontro fra il papa Francesco e i ragazzi reclusi. Il segno della comu­nione indefettibile, cementata dal Cristo donatosi in sacrifi­cio. Noi pensiamo a loro come a dei traviati, a degli espulsi: non si finisce in carcere da ragazzi se non è successo qualco­sa di tremendo, diciamo fra noi con rabbia o con pena. Con le sbarre li separiamo, e invece Cristo li chiama alla sua cena, a tavola con lui. Non è mistero, per chi abbia qualche cogni­zione o notizia delle storie vissute dai minorenni reclusi, che esistono vite spezzate, ferite, toccate oscuramente da una di­sperata vertigine. Non è solo sulle piste della marginalità so­ciale, è traversando le desolate periferie dell’anima che può riaccendersi la scintilla della speranza. C’è differenza fra rie­ducazione e redenzione. La legge, con la giustizia della pena, può promettere la rieducazione; la redenzione non viene che dall’amore di Gesù. Allora è semplice, non ci sorprende più un Papa inginocchia­to a lavare i piedi dei ragazzi in prigione; lo capiamo da quel­le sue poche, pochissime parole dette a spiegare il Vangelo, a rinnovare la spiegazione di Gesù sul dovere di chi è maestro di farsi servo, e sul dovere di ogni discepolo di imitarlo. Qua­si codice unico e ultimo, questo, d’una vita che allaccia tutti, in reciproca comunione, all’aiuto e al servizio. Spesso abbiamo pensato che l’obbedienza alla legge si giovi principalmente della sferza, della minaccia e della paura, e che la pedagogia dei castighi e dei premi tenga a freno gli istinti trasgressivi. Poco sappiamo della solitudine della devianza, della china di abbandono e di indifferenza che la propiziano... Il dovere dell’aiuto e dell’amore «l’uno all’altro» di cui ha parlato il Papa, ha segno diverso; lui ce l’ha confidato, di se stesso, come un dovere amato, come cosa che viene dal cuore. «Le cose del cuore non hanno spiegazione», ha aggiunto nel commiato dopo la Messa. È vero, sono infatti un dono, sono capaci di trasmettere in dono «la carezza di Gesù».Questi segni, questa speranza, queste parole dette dentro un carcere non vi possono stare più chiusi, sono trasferibili in ogni altro gesto di attenzione fra gli uomini, nella vita quotidiana che conosce la polvere dei piedi e le ferite del cuore, gli uni degli altri; ci snidano dalla prigione volontaria in cui ci chiude l’egoismo, ci avviano sulle strade periferiche, fuori casa perché tutto è casa, incontrando fratelli da servire e amare, perché non altri esistono se non fratelli da servire e amare. È semplice. È umano ed è sacro. È parola liturgica ed è vita. Il grande manuale liturgico, illuminato dalla carezza di Gesù, è la vita che l’accoglie.​