Il franco-tunisino Mohamed Lahouaiej Bouhlel non portava giovedì notte la tunica dei fanatici del califfo nero del Daesh, eppure non tarderanno a calargliela addosso. Lo faranno a suon di proclami e di omaggi propagandistici i jihadisti che infestano il web in questi anni di ferocia e di sanguinose bestemmie contro il Dio della vita e della pace. Hanno già cominciato a farlo in troppi, a forza di parole scagliate attraverso social network e articoli di giornale. La tunica oscura del Daesh, dello Stato islamico, sopra la tormentata e infine rabbiosa esistenza di un morto ammazzato che in una notte di festa ha usato un camion come un enorme coltello. Uno che, in fondo, quella tunica se la merita. E del servo letale e idiota del Daesh ha il perfetto profilo.Ha fatto strage di umanità, Boulhel. A Nizza, di nuovo in terra francese e stavolta anche profondamente euromediterranea. E sono tanti, tantissimi, i bambini che ha furiosamente travolto mentre mieteva decine e decine di vite di molte nazionalità e di diverse fedi, compresa la sua – musulmana – che non pare abbia mai professato con particolare intensità o addirittura con fanatismo. Ma tanto basta. Perché basta, e basterà sempre, il sangue per fare il terrorista. E tanto più se il sangue è sparso nella maniera che gli strateghi del jihad wahhabita predicano, e che noi continuiamo ostinatamente a non aspettarci, a non voler neppure concepire, in luoghi che pensiamo giustamente sorvegliati e, come in questo caso, attraverso le "non-armi" della quotidianità: gli strumenti del lavoro e del servizio reciproco, un camion, appunto, o un’auto o anche solo una moto, per la strada, in una piazza, dentro a un giardino... Situazioni e modi che incidono nella memoria collettiva il sospetto che può riempire di angoscia e paralizzare, che può rinchiuderci nelle case, nelle incertezze, nella voglia di vendetta. Che rende soli, spaventati, furenti. Dovremo perciò essere lesti – e per primi noi cronisti – a strappare via quella tunica dalle spalle di Bouhlel. Dovremo essere decisi nel resistere alle tentazioni del vedere nemici dappertutto, per scoprire la verità della propaganda dei boia miscredenti che si dicono fedeli al Misericordioso e, insieme, la verità della vita di un assassino che ha tramutato in incubo la notte di celebrazioni del 227° anniversario della presa della Bastiglia. Non dobbiamo regalare nessuno, proprio nessuno, nemmeno questo indemoniato omicida, a un nemico che pretende di armare contro di noi le nostre debolezze, le nostre ingiustizie, le nostre fobie, le nostre paure. Continueremo a scriverlo e a cercare di viverlo con tutta la semplicità e la forza necessarie: la sfida lanciata dal terrore si affronta e si vince con la stessa unità, la stessa consapevolezza e la stessa altezza morale e spirituale messe in campo, qui in Italia, negli anni che abbiamo chiamato "di piombo", da uomini e donne di diverse idee e di stessa civile umana convinzione.È bene averlo chiaro: i signori dell’odio e del terrore vogliono sradicare quelli come noi (tutti «nazareni», «crociati» o «perduti» a causa dell’«educazione occidentale», nel lessico del jihad) dalle terre dove domina la loro versione dell’islam e sognano che noi facciamo altrettanto, rifiutando e cacciando i "diversi" che non sono e non saranno mai tutti come loro. Vorrebbero vederci smontare brutalmente i lenti (e imperfetti, ma indispensabili) processi di costruzione di una società interculturale e chiudere nel rancore quello straordinario laboratorio di integrazione delle differenze che è l’Europa (che deve invece ritrovare la sua via comunitaria). Ma loro si sbagliano e noi non possiamo sbagliare. Non possiamo, cioè, rinunciare a vivere insieme, a trovare salde parole comuni, a costruire una convivenza pacifica che nessuno esclude. Perché l’arma decisiva contro l’odio letale non è la separazione dei mondi, ma la parte migliore di ciò che noi europei – cristiani, ebrei, laici e di ogni altra fede e visione, musulmani compresi – siamo e non possiamo smettere di essere se non consegnandoci alla sconfitta più totale.Per questo, nella notte di Nizza e nel giorno che è seguito, «forte come la morte» – la morte ingiusta che un uomo furioso chiamato Bouhlel ha portato ai suoi concittadini francesi ed europei – è stata la scelta di vita dei tanti che hanno aperto le porte dei loro locali e delle loro case e che hanno spalancato i portoni delle Cattedrale e di altre chiese ai tantissimi che cercavano riparo, conforto e ragioni per sperare. Porte aperte nell’urgenza, nella solidarietà, nella risposta a un'atroce insensatezza, nella fiducia che unisce. Nonostante il male, in faccia al male. Senza badare al color della pelle e ai segni indossati, badando solo a ciò che faticosamente e generosamente siamo e vogliamo continuare a essere. Fedeli, oso pensare, a un respiro comune e a uno sguardo profondamente cristiani, eppure non solo nostri. Strappando via la tunica dell’incubo.