Via dal carbone. La transizione energetica in Cina: rinnovabili e diritti da rispettare
Un parco eolico vicino a Manzhouli, nella Mongolia Interna (Cina)
L’economia cinese, pur tra mille difficoltà dovute anche alla crisi internazionale, sta riprendendo slancio, ma per permettere di continuare il suo sviluppo, le industrie, le città, la società hanno bisogno di alimentare la spinta produttiva e consumistica. Da quando Xi Jinping è giunto al potere, la Cina ha intrapreso un percorso che sta rivoluzionando il settore della produzione energetica. Nel settembre 2020 il presidente cinese ha annunciato che il Paese imboccherà con sempre maggior vigore la strada delle energie a basso impatto ambientale.
Secondo l’Istituto di energia, ambiente ed economia della Tsinghua University, ad oggi il 52% dell’energia prodotta dalla Cina proviene dal carbone (nel 2007 era l’80%), il 18% dal petrolio, il 10% dal gas naturale, l’8% dall’idroelettrico, 4% dall’eolico, 3% dal nucleare e dal solare e il 2% dalla biomassa. Nel 2060 le parti si invertiranno e la principale fonte di produzione energetica non sarà più il carbone che, secondo il programma di transizione energetica, scenderà al 3% della generazione totale, ma verrà sostituito dall’eolico, che garantirà il 24% della produzione di energia locale. Seguirà il solare (23%), il nucleare (19%), l’idroelettrica (15%). Le fonti fossili continueranno a giocare un ruolo importante, seppur non determinante, nella seconda metà del prossimo secolo: il petrolio fornirà l’8% dell’energia, la biomassa il 5% mentre il gas naturale e il carbone, rappresenteranno ciascuno il 3% dell’energia totale generata in Cina nel 2060.
I dati rilasciati dalla Tsinghua University, affermano dunque che gli attori più importanti nella transizione energetica cinese saranno l’eolico, il solare e il nucleare. Per quanto riguarda le prime due voci, la Cina, secondo l’IRENA (International Renewable Energy Agency) è già oggi il maggior Paese produttore di energia proveniente da queste fonti con il 30% dell’energia prodotta nel mondo nel campo eolico (467.037 GWh su un totale mondiale di 1.592 TWh) e il 31% in quella solare (262.000 GWh su un totale di 855.000 GWh). Nel campo dell’energia solare gli USA, con 120.000 GWh di produzione, sono secondi, ma ben distanti da Pechino che, tra l’altro, è il principale produttore di materie prime per la costruzione di pannelli solari (secondo l’International Energy Agency, circa l’80% dei componenti di pannelli fotovoltaici vengono prodotti in Cina).
Ma, come spesso viene evidenziato, le fonti di energia rinnovabili che si affidano agli eventi naturali, non sono sempre affidabili. Anche se le batterie di accumulo, grazie alle tecnologie, sono oggi più economiche e performanti, non riescono ancora a tamponare i picchi di richiesta energetica che provengono dai vari settori delle attività economiche e sociali, specialmente in nazioni così popolate e in forte sviluppo come la Cina. Ecco quindi che, in conformità con quanto raccomandato dall’IPCC, Pechino ha, in questi ultimi decenni, potenziato il settore nucleare. Secondo l’IAEA (International Atomic Energy Agency), nel 2021 i 55 reattori nucleari cinesi producevano il 5% dell’energia totale prodotta nel Paese, ma con 18 nuovi reattori in costruzione che aggiungeranno altri 18.000 MW di capacità entro il 2025 ed un secondo passo più deciso di potenziamento che porterà la capacità nucleare installata a 554 GW entro il 2050, Pechino si pone in prima linea nella lotta contro l’emissione di gas serra. L’Istituto di ricerca energetica del National Development and Reform Commission (NDRC) azzarda anche un’ipotesi ben più ottimistica per lo sviluppo del nucleare: in un articolo pubblicato dalla rivista Nature, l’ingegnere Jiang Kejun, esperto di politica energetica relativa ai cambiamenti climatici e co-autore del già citato rapporto dell’IPCC, prevede che entro il 2050 il nucleare cinese potrebbe raggiungere addirittura il 28% dell’energia totale prodotta nella nazione.
Lo sviluppo di nuove tecnologie nucleari, in particolare la forte presenza cinese e i cospicui finanziamenti del governo nella ricerca sulla fusione, rendono particolarmente ottimisti i fisici cinesi sulla capacità di affidare ai nuclei atomici la generazione di energia sufficiente per soddisfare i bisogni di gran parte della popolazione e dell’industria nazionale. La transizione energetica è strettamente correlata con le vicende politiche, in particolare quelle legate alla minoranza uigura dello Xinjiang. Mentre lo sviluppo nucleare si concentrerà nelle regioni orientali, dove scorrono grandi masse d’acqua necessarie per il funzionamento e la messa in sicurezza degli impianti, solare e eolico trovano il loro principale sviluppo nello Xinjiang. Dal 2015 ad oggi l’energia generata dal Sole e dal vento prodotta nella regione autonoma abitata dalla minoranza musulmana degli uiguri è cresciuta di due volte e mezzo. Dei 36 GWh di energia prodotta nel 2020 nello Xinjiang, il 27% è da ascrivere alle fonti rinnovabili e il potenziale è enorme.
La provincia è la più vasta della Cina, ma è anche la meno densamente popolata quindi Pechino vede lo Xinjiang come la soluzione più naturale per lo sviluppo di energie a basso impatto ambientale che necessitano di ampi spazi. Viceversa, le zone orientali, più popolate, non permettono la crescita di sorgenti energetiche basate sul solare e sull’eolico. Se fino agli anni Novanta, lo Xinjiang era considerato dalla Cina come una zona cuscinetto per attutire l’ingerenza sovietica proveniente dal Centro Asia e il posto perfetto per i propri test nucleari, dalla fine del secolo scorso si è trasformato in un formidabile bacino di sviluppo energetico. Oltre ad avere le più grandi riserve petrolifere, di carbone e di gas naturale della repubblica, nell’ultimo decennio ha espanso soprattutto le fonti rinnovabili solari e eoliche.
Il 45% dei componenti utilizzati nei pannelli solari nel mondo viene fabbricato nello Xinjiang, mentre la provincia rimane il massimo produttore di energia eolica della nazione. La Goldwin, il terzo produttore di turbine eoliche al mondo ed ora leader anche nel settore dei pannelli solari, è stata fondata nello Xinjiang. La posizione della provincia è dunque centrale nel programma energetico varato da Xi Jinping e Pechino, tra le altre cose, vuole evitare che la road map possa essere rallentata da qualsiasi tipo di destabilizzazione, religiosa, politica, nazionalista o sociale che sia. Lo Xinjiang, dove vive la più grande comunità islamica del Paese e confina con Paesi politicamente instabili come l’Afghanistan o il Pakistan, in cui il fondamentalismo ha messo radici, ha creato nella dirigenza cinese il timore che frange terroristiche possano infiltrarsi tra le popolazioni uigure. Questo ha portato ad un’ulteriore stretta verso le minoranze etniche della provincia occidentale, già provate dalle restrizioni religiose imposte dal regime e dalla politica di immigrazione han condotta sin dagli anni Sessanta da Mao Zedong.
Le numerose accuse di violazioni di diritti umani condotte da Pechino verso gli uiguri lanciate da diverse organizzazioni che si occupano di diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno portato alcune nazioni a lanciare proteste verso la dirigenza cinese che, da parte sua, ha sempre negato ogni accusa. I campi di detenzione citati da chi denuncia le violazioni, secondo il governatore dello Xinjiang, Shohrat Zakir non sarebbero altro che centri di insegnamento professionale su base volontaria che, oltre ad aiutare gli uiguri a inserirsi nel mondo del lavoro, aiuterebbero a sradicare l’estremismo nazionalista.