Beni comuni e discorso pubblico. La tragedia dei social
La nascita dei social media e in particolare del fenomeno del microblogging con Twitter rappresenta un ampliamento importante delle nostre possibilità di dialogo e dibattito nel nuovo contesto della globalizzazione digitale. Lo Speakers' Corner ad Hyde Park a Londra ha giocato certamente un ruolo (piccolo, ma altamente simbolico) nella tradizione della storia della democrazia inglese come luogo nel quale chiunque poteva issarsi su un piedistallo improvvisato per arringare i passanti e convincerli della validità delle proprie idee. Singolare come già allora esistesse il fenomeno degli haters, ovvero di alcuni uditori che non trovavano di meglio da fare che inveire con rabbia nei confronti dell’improvvisato oratore.
La nascita di Twitter significa di fatto che lo Speakers' Corner diventa globale e ciascuno di noi può parlare (avendo il veicolo della lingua) potenzialmente all’intero pianeta superando barriere spazio-temporali e lasciando traccia delle sue idee nel tempo. Le potenzialità enormi dello strumento nascondono però anche grandissime insidie e un vero e proprio “fallimento del mercato”. Come nel caso dei beni comuni, per cui un famoso articolo di Garret Hardin racconta di tale fallimento (“The tragedy of the commons”, “La tragedia dei beni comuni”), possiamo pensare ad un analogo fallimento dei social media.
Twitter non è un bene comune ma una società privata che massimizza il profitto che a sua volta dipende da una risorsa scarsa, l’attenzione di chi popola la piattaforma. Maggiore l’attenzione e la presenza, più elevati i guadagni da pubblicità e i ricavi della piattaforma. La psicologia umana è particolare e uno dei modi più efficaci per attirare attenzione è quello di creare accese discussioni. E qui dobbiamo capire una differenza tra l’ideale dello Speakers' corner e una piattaforma gestita di microblogging. La differenza fondamentale è che nella seconda situazione non è il caso a far incontrare oratori e uditori, ma un algoritmo di prioritizzazione orientato anch’esso al massimo profitto che, quando accediamo, ci fa vedere come primi messaggi quelli che sono più in grado di scatenare una nostra reazione. Inoltre, quando l’incontro non è in presenza tra persone in carne e ossa che si guardano in faccia ma anonimo in rete, si riduce com’è noto l’atteggiamento prosociale e aumenta l’aggressività. «La realtà è superiore all’idea», dice papa Francesco nella Evangelii Gaudium, e purtroppo in piattaforma sono le idee e non le persone che s’incontrano.
La letteratura scientifica che analizza gli effetti dell’introduzione di Twitter in modo rigoroso e con milioni di dati è già copiosa. Dal lato positivo Twitter aumenta la possibilità di coordinare le forze e chiamarsi a raccolta per perseguire buone cause. Alcuni studi (Enikopolov e colleghi) dimostrano come la piattaforma abbia aiutato l’organizzazione di manifestazioni importanti della dissidenza russa negli ultimi anni e come i messaggi di un noto oppositore del regime come Navalny abbiamo prodotto effetti importanti sui valori delle aziende possedute dagli oligarchi sulle Borse internazionali.
Dal lato negativo, però, sono numerosi gli studi che dimostrano come Twitter abbia approfondito la polarizzazione delle idee dando forza alle visioni estreme favorendo la diffusione di messaggi d’odio e di fake news e contribuendo ad esempio in maniera significativa al successo di Trump negli Stati Uniti (Allcott and Genkzow, 2017).
Detto ciò, il problema va risolto sul campo, perché è impossibile riavvolgere indietro il nastro. La dialettica tra piattaforme e regolatori ha già una storia. Il campo da gioco è oggi molto più favorevole che all’inizio per chi vuole promuovere dialogo dopo la rimozione del limite dei 140 caratteri per post (che favoriva gli haters che per insultare hanno bisogno di pochi caratteri mentre la riflessione richiede più spazio), la possibilità di scegliere chi può replicare al proprio messaggio e l’opportunità (a pagamento però) di poter eliminare del tutto il numero di caratteri per spiegare articolatamente e senza possibilità di equivoci il proprio pensiero.
Il compromesso, dunque, avviene su un terreno dove i proprietari della piattaforma salvano i profitti accettando di rendere il terreno del confronto più sfavorevole agli haters.
È possibile ipotizzare interventi più drastici come quelli dell’abolizione dell’anonimato, che però presentano ovvie controindicazioni. I social media esistono e non torneremo indietro. Essi però, offrendo condizioni favorevoli alla proliferazione del pensiero dei “no-qualcosa”, strumentalizzata spesso da forze politiche, pongono però una sfida alla democrazia. Alla radice troviamo sempre lo stesso pensiero anarcoide che falsifica i dati della realtà e vede in ogni problema che chiama in causa la nostra responsabilità sociale un tentativo di poteri forti di controllare la nostra vita che vorrebbe essere vissuta in modo totalmente libero senza alcuna preoccupazione di dover contribuire ad una polis da cui pretendiamo servizi nel bisogno.
Dalla nostra missione digitale e dalla capacità di trovare risposte di regolamentazione adeguate a questi nuovi problemi dipende il nostro futuro.