Jobs act secondo atto. Le parti sociali: avanti con gradualità. La stretta sui contratti precari
Accresciuta la flessibilità in uscita – con il licenziamento (quasi) senza più reintegra – ora si può diminuire la flessibilità in entrata per favorire un’occupazione più stabile e di qualità. Semplificando, è questa la filosofia che muove il governo: ridurre le forme contrattuali oggi esistenti per evitare quelle che qualcuno considera "trappole della precarietà". E "convogliare" quante più assunzioni possibili verso il nuovo contratto a tutele crescenti a tempo indeterminato, oggi reso particolarmente conveniente grazie ai forti sconti sui contributi. La ricetta anti-precarietà studiata dal Ministro del Lavoro Giuliano Poletti sarebbe dunque quella di "superare" i contratti a progetto, lasciando solo le collaborazioni coordinate e continuative (oggi utilizzate prevalentemente nella Pubblica amministrazione); eliminare le associazioni in partecipazione e il lavoro intermittente (o a chiamata); stabilire nuovi criteri per evitare le false partite Iva, ampliare il bacino di utilizzo dei voucher. Si parla anche di ridurre da 36 a 24 mesi il periodo massimo per i contratti a termine, ma si tratta di un’eventualità più remota. La ricetta finale, con il dosaggio giusto dei vari ingredienti, emergerà solo dal Consiglio dei ministri del 20 febbraio, nel quale dovrebbe essere approvato il terzo decreto delegato del Jobs act, appunto sulle forme contrattuali. Nell’attesa, val la pena di chiedersi quale potrà essere l’impatto di queste misure e se corrispondono effettivamente a un disegno di modernizzazione e maggiore efficienza per il nostro mercato del lavoro.
Tutte le misure ipotizzate sono destinate a interessare una percentuale limitata di contratti. Meno del 10% dei 2,4 milioni di rapporti di lavoro attivati ogni trimestre. La gran parte di questi sono infatti contratti a tempo determinato (oltre 1,7 milioni) e a tempo indeterminato (oltre 400mila), ai quali vanno aggiunti circa 60mila apprendistati, 150mila collaborazioni e non più di qualche decina di migliaia di tipologie minori. Se si guarda invece allo stock, i collaboratori a progetto potenzialmente interessati dalla riforma sono 546mila secondo l’ultima elaborazione del professor Patrizio Di Nicola su dati della Gestione separata Inps, mentre gli associati in partecipazione ammontano a 44mila persone. Le false partite Iva, infine, vengono stimate intorno alle 270mila. Il tutto su oltre 22 milioni di occupati. Ma se davvero si cancellassero i contratti a progetto e altre forme di rapporto parasubordinato, che fine farebbero questi lavoratori? Nelle intenzioni del governo, la gran parte dovrebbe essere assunto con il nuovo contratto a tutele crescenti, un’altra parte migrare definitivamente nel lavoro autonomo con partita Iva. In realtà, esiste il rischio concreto che una buona parte di ex collaboratori finisca per restare senza lavoro, scivolare nel nero o rientrare nel girone dei contratti a termine senza causale. Per lo meno questo è ciò che è accaduto appena tre anni fa, quando la riforma Fornero ha dato una prima forte stretta alle regole delle collaborazioni, delle associazioni in partecipazione e del lavoro a chiamata (in alcuni casi aumentandone anche i costi). Nel solo 2012, infatti, «i collaboratori a progetto sono diminuiti di 145mila unità – notava l’Osservatorio dei lavori in un rapporto del 2014 – per effetto sia della crisi economica ma non di meno della riforma Fornero... senza che vi sia stato un recupero nel lavoro dipendente, semmai con l’uscita verso il nero, le false partite Iva o la disoccupazione. Solo laddove è stato dato più tempo per la trasformazione, la contrattazione ha attenuato gli effetti negativi».I rischi non mancano, dunque. Non a caso, pur partendo da posizioni diverse, le parti sociali trovano una consonanza su due concetti: «prudenza» e «gradualità». In casa Confindustria si guarda con una certa preoccupazione a questa seconda tranche di decreti delegati. L’impressione è quella di un «approccio quantomeno prematuro – spiegano al vertice dell’associazione industriali –. Prima di restringere le possibilità di entrata flessibile in azienda andrebbe verificato l’impatto reale del nuovo contratto a tutele crescenti. Che nel 2015 sarà positivamente influenzato dal forte sconto contributivo, ma poi nel 2016 e negli anni seguenti?». Occorre riflettere con calma sul modello contrattuale, insomma. E armarsi di realismo. Non tanto per la manifattura che vi fa un ricorso limitato, ma ci sono interi settori, come i call center, il recupero crediti, le ricerche di mercato, che si basano quasi esclusivamente sui contratti di collaborazione con circa 80mila occupati. Pensare che da un giorno all’altro questi rapporti possano trasformarsi tutti in lavoro dipendente appare veramente difficile. Si rischia di incentivare nuovamente circoli viziosi o di dover mettere in conto una grande massa di sussidi per far fronte ai licenziamenti.Stessa prudenza e gradualità richiesta da Andrea Dili, portavoce dell’Associazione XX maggio che riunisce appunto una parte del variegato mondo di collaboratori, professionisti e freelance: «Bene rivedere le forme contrattuali, ma solo se non si procede con l’accetta o ci si limita a cancellare le collaborazioni a progetto, lasciando magari attive quelle coordinate e continuative con la Pubblica amministrazione. In questo caso almeno, vorrei che lo Stato desse il buon esempio procedendo per primo alla riforma e non imponendo ai privati obblighi che il pubblico invece non rispetta. Occorre che qualsiasi cambiamento sia graduale e si lasci spazio alla contrattazione per evitare di far scivolare nella disoccupazione o nel nero decine di migliaia di lavoratori». Persino il sindacato, che da tempo insiste per una profonda revisione delle forme contrattuali parasubordinate, predica gradualità per i contratti a progetto e attenzione a non far cadere i lavoratori "dalla padella alla brace". «Il nuovo contratto a tutele crescenti è un’occasione per riportare il tempo indeterminato a forma principale d’impiego, con tutto ciò che significa anche in termini di investimento sulla formazione delle persone – spiega Gigi Petteni, segretario confederale Cisl –. La flessibilità sarà comunque garantita con la somministrazione e il contratto a tempo determinato. Altre forme come il lavoro a chiamata o l’associazione in partecipazione vanno eliminate. Da superare, gradualmente, anche le collaborazioni. Ma occorre da un lato tutelare meglio il nuovo lavoro realmente autonomo, dall’altro circoscrivere ad alcuni settori e specificità l’utilizzo dei voucher per non far peggiorare la condizione dei lavoratori».
Convinto che non si combatta così la precarietà è Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia: «Un conto è reprimere gli abusi, che ci sono. Altra cosa è eliminare forme di lavoro che interpretano i moderni modi di lavorare in termini di maggiore autonomia, condivisione dei rischi e dei risultati, mobilità e investimento sulle proprie competenze professionali. Se si vuole combattere la vera precarietà si inizi dal lavoro sommerso e dalla disoccupazione». Al di là delle scelte contingenti, resta la domanda di fondo: il futuro del lavoro è nella dicotomia dipendente-autonomo o in forme ibride? Quale tipo di rapporti sarà più funzionale ad un mercato nel quale oltre la metà dei vecchi mestieri verrà sostituito da robot e la rivoluzione digitale renderà indifferente il luogo di prestazione? «Il lavoro strettamente dipendente, in esecuzione di ordini e direttive, con obblighi di orario e presenza è destinato a una crescente marginalizzazione – ragiona Tiraboschi –. Aumentano per contro vincoli contrattuali a risultato, frutto della collaborazione di diverse professionalità che si offrono liberamente sul mercato. In questo scenario, il modello regolatorio e organizzativo del lavoro subordinato appartiene al Novecento industriale, mentre cresce il peso di forme di lavoro autonomo o comunque ibride come appunto il lavoro per progetti e l’associazione in partecipazione. Compito del legislatore è regolare e cercare di intercettare il nuovo, non riscrivere una storia che oggi non c’è più».