Stati Uniti. La strategia dei dazi di Trump ricetta vecchia e improduttiva
Tanto tuonò che piovve! Questa è sicuramente la frase più adatta per riflettere sui recenti annunci dell’amministrazione Trump in merito ai dazi nei confronti di diversi Paesi e in particolare nei confronti della Cina. 'The Donald', infatti, non si era mai nascosto su questo punto: aveva promesso in campagna elettorale che avrebbe alzato nuove barriere commerciali ed è quello che sta facendo. Come già evidenziato su questo giornale in diverse occasioni, del resto, l’idea del protezionismo è ben radicata da anni nel Partito repubblicano americano e in molti esponenti della classe dirigente americana. Nella storia, le amministrazioni repubblicane hanno quasi sempre elevato i livelli di protezionismo laddove i democratici si sono sempre mostrati a favore di una moderazione delle tariffe sulle importazioni.
Era stato Dwight Eisenhower a cambiare l’impostazione repubblicana quando all’indomani della Seconda Guerra Mondiale aveva favorito la liberalizzazione commerciale in seno a un processo più ampio di liberalizzazione commerciale concordato con i Paesi alleati. Trump e la sua amministrazione hanno riportato indietro di molti anni la cultura politica del Partito repubblicano e il protezionismo è solo un tassello di una visione che si basa tra le altre cose su potenza militare incontrastata e mancanza di legittimazione delle organizzazioni internazionali. Il ritorno al protezionismo motivato pubblicamente da (veri o presunti) comportamenti scorretti della Cina, infatti, pone anche seri dubbi in merito al grado di legittimità che questa amministrazione americana attribuisce alle organizzazioni internazionali e in particolare all’Organizzazione mondiale del commercio ( Wto) che ha un suo organo di risoluzione delle controversie.
Ed è interessante notare che il 23 marzo scorso gli Stati Uniti avevano richiesto una consultazione a questo organismo in merito alla tutela dei brevetti e alla proprietà intellettuale per poi annunciare pubblicamente il ricorso a nuovi dazi. Questo conferma il comportamento ondivago del presidente Trump e le divisioni in seno all’amministrazione. Queste ultime riflettono, peraltro, le lacerazioni interne agli stessi Stati Uniti. In seguito al primo annuncio di nuovi dazi, la Casa Bianca si è vista recapitare una lettera di 45 tra associazioni e gruppi commerciali in cui si richiedeva di non implementare le annunciate misure protezionistiche. Thomas Donohue, presidente dell’Unione americana delle camere di commercio, la più grande associazione imprenditoriale del mondo con oltre 3 milioni di imprese iscritte, il 15 marzo si diceva profondamente in disaccordo con la decisione dell’amministrazione Trump di aumentare i dazi verso i prodotti cinesi.
A dispetto di tali resistenze, l’amministrazione Trump ha insistito sulla linea del protezionismo. La guerra commerciale accresce un confronto con la Cina che in ultima analisi è principalmente di natura strategica e che riguarda l’ordine mondiale. L’amministrazione repubblicana non ha mai fatto mistero di non fidarsi del governo cinese e di voler tornare indietro rispetto alle aperture di Obama, che invece aveva visitato Pechino già nel 2009, durante il suo primo mandato. Nel suo primo discorso sullo stato dell’unione Tump invece aveva indicato in Russia e Cina i Paesi rivali per fronteggiare i quali aumenterà le spese militari e l’arsenale nucleare. Una potenza militare superiore a chiunque altro al mondo è infatti un altro tassello fondamentale della cultura politica repubblicana a cui si accennava prima.
Le decisioni della Casa Bianca concretano l’idea secondo cui la politica commerciale è componente integrante della politica estera e per questo esistono Paesi amici con cui stipulare accordi commerciali (ad esempio la Corea del Sud) e Paesi rivali con i quali il commercio diventa un’arma per influenzare o indebolire l’avversario. Questa visione, però, per quanto possa apparire logica è di una debolezza intrinseca poiché semplicistica. La globalizzazione economica, infatti, ha oramai trasformato il mondo in una rete di interconnessioni in cui la pervasività di flussi commerciali e investimenti a livello mondiale non consentono a nessuna nazione – neanche agli Stati Uniti – di influenzare in maniera decisiva i destini dell’economia mondiale.
Paradossalmente, quello che appare più preoccupante, infatti, è l’incapacità da parte dell’amministrazione americana di elaborare una moderna strategia rispetto alle problematiche esistenti a livello globale. La rivalità strategica con la Cina non è sicuramente da sottovalutare ma sicuramente non può essere affrontata come se fossimo alla fine del diciannovesimo secolo, mentre Trump e la sua amministrazione, per ora, non hanno dimostrato di avere idee nuove.