Il Papa e l'uscita dal marciume. La strada diritta
La strada diritta della giustizia c’è, ed è 'bella', disegnata dalla regola giusta: poi storpiata dal cammino, poi ripristinata dal giudizio. Oppure no, macché ripristinata, se quel che si pensava cancellato frattanto ci sta ancora addosso come una lebbra sulla pelle, pronta a ripropagarsi. L’Italia è la culla del diritto. Sul giusto abbiamo pensato e scritto le più belle pagine della civiltà umana. Ma sulla pratica del giusto siamo ora agli ultimi posti: e ci sta sul collo un fiato guasto, una parola che puzza, che dice più che la deviazione il cancro, il marcio dentro il frutto, qualcosa che si decompone: la corruzione. Corruzione è l’insultante verità che ci mette al 72esimo posto della classifica, come i Paesi del Terzo Mondo (ai quali chiediamo scusa per il paragone, se pensiamo alla loro disperata servitù).
Corrotti, marci, ecco cosa dicono di noi. Viene in mente l’uragano di Tangentopoli che vent’anni fa scoperchiò la cloaca del malaffare tra politica e imprenditoria, rovesciando l’indignazione popolare su quelle fogne, talvolta con qualche semplificazione riduttiva, risucchiando nel vortice gli uccellacci e gli uccellini. Ma neppure la sua dismisura, storicamente e criticamente riletta, ha mutato radicalmente il quadro. Quante volte se n’è scritto, in questi anni, su queste pagine : la marea si è ricomposta sopra le onde squassate, la corruzione si è ridata fiato, i favori e le bustarelle, a quanto si è appreso dalle nuove indagini e dai nuovi processi e dalle nuove cronache d’opinione, hanno ripreso la scena.
Ci trasciniamo dentro una 'mafiosità' sofisticata che non ha riti affiliativi ma prassi di privilegio. Possiamo persino partire da ciò che è legalizzato, ma sta come figura scandalosa nella disinvoltura dei benefits di casta, che oggi pagano la vergogna della pubblicità dei rimborsi censurati e ridicolizzati. Abbiamo poi avuto notizia di compravendite politiche, a denaro sonante. E resta il costume faccendiero delle buste, che fa di parole innocenti, come ad esempio appalto pubblico, parole sconce da non dire in presenza di bambini. Ci sono favori comprati, c’è schifo, fra noi.
Ieri, nella Messa, c’era un vangelo difficile: quello dell’amministratore infedele chiamato a rendiconto. Il papa Francesco l’ha detto e spiegato. Con la semplicità inflessibile dei miti di cuore, è stato dolce e durissimo, quando ha parlato del «pane sporco» consegnato ai figli. Della dignità ferita dall’abitudine alla tangente, che è «fortemente peccatrice». Io non so quanti capiranno subito il senso evangelico della parola, la sua dirompente rivoluzione, la sua ricaduta coerente sulle azioni di giustizia, sulle regole di giustizia, sulle condotte umane secondo giustizia. È una parola aspra, la giustizia, e la ricchezza ha già il suo daffare a presentarsi con la menzogna del mezzo pollo fra affamati e satolli rigurgitanti. La rapacità disonesta è un’idolatria che avvelena l’anima e fa marcire il villaggio sociale, a qualunque politica si ispiri.