Referendum catalano e questioni europee. La storia non è solo cozzo d'assolute volontà
La consultazione popolare svoltasi domenica nella regione spagnola della Catalogna – pur illegale e inadeguata rispetto agli standard di regolarità necessari a esprimere una decisione riconoscibile come 'legittima' – pone almeno due grandi questioni che non riguardano solo la Catalogna, né solo la Spagna, ma tutta l’Europa contemporanea. La prima concerne una delle più grandi (e a tratti tragiche) creazioni dello spirito europeo: che cosa resta dello Stato nazionale moderno.
E’ ormai lontana da noi la statolatria ottocentesca, culminata nel Novecento nei totalitarismi e in due guerre mondiali: dell’assolutismo statale non c’è dunque nulla da rimpiangere. Ma il ruolo civilizzatore dello Stato-nazione resta uno dei prodotti di maggior successo dell’Europa: non a caso esso è stato esportato nel secondo dopoguerra in tutto il resto del pianeta. Quel particolare ordine politico denominato Stato richiede, di norma, oltre al monopolio legittimo della forza armata da parte di un apparato burocratico organizzato razionalmente, la capacità di costruire identità collettive e di ordinarsi attorno a una nazione che esso trova prima di sé, ma che al tempo stesso contribuisce a produrre, creando uno status giuridico, quello di cittadino, che, pur immerso in elementi identitari collettivi che includono la storia, la lingua, la/le religione/i, i costumi e le tradizioni, trascende al tempo stesso tutto ciò per creare uno spazio civile in cui la vita libera e ordinata dei singoli è resa possibile, superando il caos che precedeva lo Stato. Nell’ultimo secolo abbiamo finalmente imparato a relativizzare lo Stato: esso non è più il Leviatano contrapposto a un cittadino solitario, ma opera nel contesto di processi di integrazione sovranazionale, di interazioni globali, di decentramento territoriale e a fronte dell’autonomia della società civile.
Ma esso rimane il guardiano ultimo delle nostre libertà, all’interno di frontiere delimitate verso l’esterno. Il quesito è dunque: è forse giunto il momento del congedo dallo Stato moderno in Europa, chiamato a dissolversi nelle sue identità minori e al tempo stesso a confluire nelle magmatiche dinamiche dell’integrazione continentale e del mercato globale? O può esso ancora svolgere un ruolo di equilibrio, pur condizionato dai molteplici antisovrani che affollano lo spazio politico contemporaneo? Ed è davvero la stessa cosa uno Stato nazionale secolare come quello spagnolo, o, in misura minore, quello italiano rispetto alla frammentazione in piccole patrie che trasformino una Regione in Stato, elevino a dignità di lingua il rispettivo dialetto e si dotino di ministri e ambasciatori? È vero che la storia europea è fatta anche di piccoli Stati (dalla Svizzera al Belgio, dalla Danimarca ai Paesi baltici), ma siamo sicuri che una frammentazione dei grandi Stati nazionali non produca una polverizzazione di attori funzionale solo ai tiranni post-moderni che circondano il Vecchio Continente, da Putin ad Erdogan?
La seconda questione evocata dalla vicenda catalana riguarda l’uso degli istituti di democrazia diretta. Le entusiastiche corrispondenze da Barcellona di alcuni telegiornali privati italiani dipingevano un popolo che rivendicava un «diritto di decidere» di fronte a uno Stato che ne negava la legittimità e che usava le forze di polizia per impedire «l’esercizio del diritto di voto». Esse riflettevano una sensibilità assai diffusa, che invoca continuamente i referendum su ogni tema, dalla costruzione di un parcheggio in una città alle trivelle prospicienti la costa, fino al diritto di decidere – magari in modo assai generico – sulle dimensioni della propria autonomia (accadrà in Veneto e Lombardia in questo mese di ottobre) o addirittura per rivendicare (Catalogna) o recuperare (Brexit) la propria sovranità. Del tutto marginale resta la questione delle regole su queste consultazioni, relative sia alla legittimità di un voto referendario dal punto di vista dell’ordinamento giuridico in cui esso si svolge, sia alle forme di esso (ad esempio, le garanzie di informazione e di dibattito, del tutto assenti in Catalogna e assai discutibili per il prossimo voto lombardo-veneto), sia alle maggioranze necessarie a vincolare tutti.
Per restare al caso catalano, ammesso (e non concesso) che una maggioranza di elettori sia favorevole alla secessione, che ne è dei diritti delle minoranze? Basta per rompere uno Stato nazionale la maggioranza dei voti in uno specifico referendum? O occorre una soglia più alta (ad esempio i due terzi del voto popolare o la maggioranza degli aventi diritto al voto)? Se per il cambiamento costituzionale si richiede, negli Stati contemporanei a costituzione rigida, una decisione a maggioranza qualificata, perché il corpo elettorale dovrebbe essere del tutto libero da vincoli di decisione rinforzata quando essa riguarda la stessa esistenza di una comunità politica? E prima ancora: se a una Regione spetta il cosiddetto «diritto a decidere», perché non potrebbero rivendicarlo anche una Provincia, un Comune, un quartiere, e, al limite, un gruppo di amici, sfociando così in un radicale fai-da-te che sarebbe l’anticamera della dissoluzione anarchica? Se la base di una nazione è solo la volontà di esserlo, fin dove può arrivare il diritto a ritenersi nazione? Queste domande non vogliono congelare per sempre la storia, i confini, gli spazi di coesistenza umana. Fanno però appello a uno sforzo più elevato di razionalità, che parta dal riconoscimento di quel tanto di positivo che si è depositato nelle strutture collettive legittimate dalla tradizione e non riduca le questioni politiche e identitarie ad un mero scontro di volontà assolute, nel quale, alla fine, è possibile solo misurarsi sul piano della forza, dei nudi fatti.