Il mondo e il compito dell’Europa. Via dalla spirale dei massacri
Se a livello privato si osserva l’indebolimento dell’empatia, sul piano politico-istituzionale questo tempo segna il ritorno in grande stile del conflitto armato per risolvere le controversie che si moltiplicano nel mondo globalizzato. L’invasione dell’Ucraina ha fatto da evento catalizzatore di processi già avviati negli anni precedenti che adesso stanno però acquisendo natura sistemica. Sono tre le tendenze principali che si vanno rafforzando reciprocamente. Secondo l’ultimo Rapporto disponibile del Stockholm International Peace Research Institute già nel 2021 - cioè prima dell’invasione Ucraina - la spesa militare complessiva a livello mondiale aveva superato (per la prima volta dal 1949) i 2.000 miliardi di dollari annui.
Un’ascesa cominciata nel 2015 e alimentata da cinque Paesi: i due terzi delle spese militari globali sono infatti effettuati da Usa, Cina, Russia, India e Regno Unito. Gli Stati della Ue, più indietro, dopo i fatti ucraini hanno cominciato la rincorsa: la Francia ha annunciato un programma per la difesa di oltre 400 miliardi di euro nei prossimi 7 anni. La Polonia ha annunciato che porterà al 4% del Pil le proprie spese militari e la Germania le raddoppierà sino oltre i 100 miliardi annui. D’altra parte, la guerra in Ucraina proclama che, per “vincere” o almeno non perdere lo scontro bellico, servono armi sempre più sofisticate: in un mondo tecnologico anche la guerra diventa tecnica (anche se a morire sono poi uomini e donne in carne e ossa, a centinaia di migliaia).
Il secondo trend è la costruzione di muri. Anche in questo caso la tendenza è cominciata a ben prima dell’attacco all’Ucraina. Muri e recinzioni costruiti per cercare di separare ciò che in realtà è strutturalmente unito sono ormai diffusi in tutti i continenti. A oggi si contano circa 80 muri per quasi 50.000 km, l’equivalente della circonferenza dell’intero pianeta. A fine del 2022 sui confini europei si contavano 2.048 chilometri di barriere, quando nel 2014 erano 315 e zero nel 1990. A seguito dell’invasione dell’Ucraina, anche la Finlandia ha cominciato a costruire un muro sulla lunga frontiera con la Russia. E per fronteggiare la questione migratoria qualche mese fa dodici Stati membri (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia) hanno chiesto alla Commissione finanziamenti per la costruzione di barriere fisiche di difesa.
Infine, il terzo trend riguarda i conflitti armati, con la loro natura sempre più ibrida: vere e proprie invasioni come quella russa nei territori dell’Ucraina; guerre civili con pesanti implicazioni e intromissioni internazionali, come in Afghanistan, Yemen, Siria e Congo ma anche in Myanmar; terrorismi cronici mescolati a banditismi come quelli in Nigeria e nel Sahel, ma anche in non poche zone dell’America Latina. Con il nodo Taiwan, spada di Damocle che pende sul futuro non solo dell’area sinopacifica ma del mondo intero. Il punto è che ogni conflitto locale si sviluppa in rapporto tra le grandi religioni, il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, la definizione delle sfere di influenza tra le diverse potenze regionali e mondiali. Una situazione che papa Francesco ha più volte qualificato come “terza guerra mondiale a pezzi” (avvertendo che i pezzi si vanno ormai saldando).
Il mondo si sta dunque avvitando in una spirale in cui la convinzione che le armi siano una soluzione guadagna ogni giorno un po’ di terreno. Lo scivolamento è così evidente che si può parlare di una sorta di “isteria collettiva” da cui sembrano affette buona parte delle élite del mondo. Ed è per questo che è urgente sviluppare visioni alternative.
Ci sono, è bene ricordarlo, fattori strutturali di tenuta. In primo luogo gli interessi economici che si riverberano sugli equilibri sociali e politici interni dei singoli Paesi. Nelle società contemporanea è difficile giustificare la guerra, che sempre comporta il peggioramento della condizione di vita dei cittadini semplici. E anche se abbiamo visto che tutto ciò non basta a far tacere le armi, la questione economica costituisce pur sempre un elemento importante da considerare e su cui far leva per scongiurare o fermare le derive belliche.
Questo primo aspetto si collega ai grandi problemi comuni che richiedono di essere affrontati insieme. Il ritardo nel gestire la transizione ecologica è, ad esempio, destinato a colpire tutti. E anche questo secondo argomento va a favore della cooperazione e contro le ragioni della guerra. Il terzo fattore di tenuta riguarda la diffusa consapevolezza dei rischi di una escalation nucleare. Tuttavia, come nell’epoca della guerra fredda, i contendenti sembrano disposti ad alzare l’asticella della tensione ogni giorno di più. Col rischio - oggi palpabile - che il gioco possa scappare di mano. In questa situazione c’è bisogno che più di qualcuno torni a sostenere con forza gli argomenti del dialogo. E questo vale in primo luogo per l’Occidente e nell’Occidente dell’Europa comunitaria, che si presenta al mondo come difensore della libertà e della democrazia.
È proprio il legame con la nostra storia, e con ciò che abbiamo appena richiamato e che caratterizza la nostra presenza nel mondo, che dovrebbe spingerci ad affermare sempre che la guerra è una non-soluzione. Per essere sé stesso, l’Occidente non può e non deve stancarsi di insistere affinché siano il dialogo e il negoziato le vie da ricercare e percorrere per la soluzione dei conflitti. Il mondo è dentro una spirale di guerra. L’avvitamento non può che proseguire se non ci sarà qualcuno che - senza ingenuità, irenismi, superficialità - non proverà a invertire la dinamica delle cose. Salveremo noi stessi, l’intera società umana e il pianeta se sapremo trarre fino in fondo le conseguenze che parole come “libertà”, “democrazia” ed “equità” possono e devono avere sul piano delle relazioni internazionali.