Negli ultimi giorni i media hanno riportato diverse notizie sui disguidi connessi alla procedura di preselezione per l’accesso al cosiddetto Tfa (tirocinio formativo attivo) da parte degli aspiranti insegnanti. Si tratta di alcuni test a scelta multipla – che si concludono ufficialmente oggi – finalizzati a scremare i migliori candidati alla frequenza di un corso annuale post lauream, necessario, in base alle procedure in vigore per la prima volta dal nuovo anno scolastico, per acquisire l’abilitazione alla docenza nelle diverse discipline e nei diversi gradi di istruzione. Comprensibile il disorientamento di diversi giovani (e meno giovani) iscritti ai test: alcuni quesiti erano formulati male, mentre per altri nessuna delle alternative proposte come risposta era corretta; bassissima, poi, in particolare per alcune materie, la percentuale degli ammessi a frequentare i tirocini (che si svolgeranno, a partire da settembre, presso diversi atenei). Mentre dal Ministero dell’Istruzione hanno riconosciuto gli errori e stanno ipotizzando soluzioni pratiche ai problemi evidenziati, è necessario compiere qualche riflessione.Intanto, occorre sgombrare il campo da nostalgie fuori luogo. Chi rimpiange i vecchi "concorsoni" (con decine di migliaia di candidati a svolgere temi e colloqui su tutto lo scibile umano, ma spesso in condizioni disumane) forse si è dimenticato che cos’erano. È vero, le prove a scelta multipla sono più simili a un quiz per la patente che a un esame capace di selezionare i più preparati e i più adatti a un lavoro così particolare e delicato come l’insegnamento. Ma è anche vero che di fronte a numeri imponenti come quelli di cui si tratta (parecchie decine di migliaia, visto che da diversi anni le procedure abilitanti erano bloccate), la formula del numero chiuso attraverso una preselezione, pur con tutti i suoi limiti, è ancora la soluzione più ragionevole. Ai
laudatores temporis acti che rivorrebbero i vecchi concorsi (a loro dire più seri e più efficaci nel misurare la preparazione) mi piacerebbe raccontare lo sconcerto che provai quando, avendo partecipato all’ultimo concorso ordinario (bandito nel 2000), alle due prove scritte, vidi molti miei colleghi candidati consultare e compulsare, incuranti dei divieti, intere biblioteche che si erano portati da casa, sotto gli occhi distratti dei commissari.Del resto, non va dimenticato che la prova di preselezione è soltanto la prima fase di una serie successiva di impegni, che costituiranno il percorso formativo vero e proprio. È lì, in quell’anno di studio e di lavoro, che si giocheranno le due partite più importanti. La prima: quella della formazione culturale, un aspetto che non può essere messo in secondo piano. Per poter insegnare qualcosa, bisogna prima di tutto possederlo e in molti, tra gli stessi professori universitari, lamentano che l’università del "tre più due" (quella uscita dalla riforma Berlinguer-Moratti: laurea di base triennale, seguita da laurea specialistica biennale) non sempre si è rivelata efficace nel trasmettere i contenuti disciplinari in maniera completa e approfondita. Dunque, si usi questo anno di formazione anche per colmare eventuali lacune e per coltivare ulteriormente le proprie materie di studio.Ma la partita più importante è un’altra: quella che ha a che fare con la verifica delle motivazioni che portano verso l’insegnamento. Qui sarà centrale la fase dei tirocini nelle classi, a diretto contatto con i ragazzi. La nostra scuola ha bisogno di insegnanti competenti e soprattutto motivati. Senza l’entusiasmo che deriva da una motivazione profonda, di tipo vocazionale, non vale la pena puntare sull’insegnamento. Una professione che a un laureato non garantisce né uno stipendio appetibile né quel riconoscimento sociale che un tempo conferiva e che negli ultimi anni si è parecchio deteriorato. Questo sarà il vero esame: coloro che ne usciranno promossi, saranno gli insegnanti che ci servono.