Next Generation Eu. La spesa europea per le armi è contro lo sviluppo sostenibile
Aumenta la dotazione del Fondo Ue per la difesa. Servirà a finanziare anche la ricerca per nuovi dispositivi bellici Più alto il rischio di conflitti nel mondo
Qual è il modello di sviluppo economico dell’Unione Europea che si sta costruendo per mezzo del Next Generation Eu? La risposta di tutti sarebbe sicuramente un modello di sviluppo sostenibile. Questa risposta, tuttavia, sarebbe in realtà solo parzialmente esatta. È legittimo, infatti, avanzare dei dubbi in merito all’esatta definizione che si potrebbe applicare al modello di sviluppo prescelto dai governi degli stati membri. Il motivo di ciò risiede nel fatto che se da un lato è forte l’impegno verso la sostenibilità ambientale e sociale, dall’altro è anche evidente per la prima volta l’Unione Europea ha definito in maniera chiara uno sviluppo dell’impegno in ambito militare attraverso il Fondo europeo per la difesa con linee di finanziamento che si sommano agli impegni esistenti dei singoli stati in ambito militare.
Il futuro dell’ecosistema non è al sicuro se si pongono le basi perché esso sia sottoposto a choc sostanziali. L’instabilità dei modelli di deterrenza in un mondo multipolare può essere un pericolo
Questo Fondo nasce nel 2017 con l’obiettivo di favorire l’autonomia strategica dell’Unione Europea, promuovendo la cooperazione in materia di difesa tra le imprese e tra i paesi membri. Esso è utilizzato per programmi di ricerca collaborativa in materia di difesa e per programmi di natura industriale al fine di favorire sviluppo di nuove tecnologie nel settore della difesa. Per il periodo 2021-2027 il Fondo avrà una dotazione di 7.953 milioni di euro destinati a 'investimenti' per la difesa. Con il termine 'investimenti' – usato purtroppo malamente e impropriamente – nell’ambito delle spese militari si fa riferimento alla spesa per acquisizioni di nuovo equipaggiamento militare e alla spesa in Ricerca e Sviluppo di nuovi dispositivi d’arma. La spesa per 'investimenti' aggregata nel periodo 2017-2019 degli Stati membri Eu26 (senza Regno Unito e Danimarca) era stata pari a 106.279 milioni di euro con chiara tendenza di crescita dato che la differenza tra il primo e ultimo anno di questo triennio segnava un +35%. In pratica il fondo europeo contribuisce a tale tendenza e – seppur in un periodo più lungo – aumenta di quasi il 7,5% la cifra che gli stati destinavano ai c.d. 'investimenti'.
In pratica, l’Unione Europea sta stimolando l’acquisizione e lo sviluppo di nuovi dispositivi d’arma e l’industria della difesa attraverso nuove linee di finanziamento. Più nello specifico, è dichiaratamente un sostanziale stimolo all’industria militare. Se da un lato, dal punto di vista strategico l’acquisizione di nuove armi può essere ricondotta alla dichiarazione congiunta dei capi di governo della Nato del settembre 2014 in cui, alla luce della crescente minaccia russa, questi si ritrovavano d’accordo sull’obiettivo di destinare il 20% della spesa militare a nuovo equipaggiamento. D’altro canto, molti governi europei negli ultimi anni hanno sostenuto la propria industria militare che ha aumentato progressivamente le proprie esportazioni nel resto del mondo. L’Italia ad esempio tra il 2007 e il 2017 ha aumentato il proprio export di armi in termini di valore da 0,9 miliardi di dollari a 3,4 (con una media nel periodo di 1,9). Nello stesso periodo, la Germania è passata da 3,7 miliardi di dollari a 4,9 (con una media nel periodo di 3,6) e la Francia da 3,3 a 5,6 (con una media nel periodo di 4,1). giusto ricordare, peraltro, che l’aumento delle esportazioni di armamenti aveva suscitato l’approvazione – alla fine del 2018 – da parte del Parlamento europeo di una risoluzione che rappresentava un durissimo atto d’accusa nei confronti della maggior parte degli stati membri. Nel nostro paese più recentemente critiche sono state sollevate quando è stato confermato che erano state autorizzate esportazioni verso governi clienti coinvolti in conflitti armati ovvero accusati di mancato rispetto dei diritti umani (Arabia Saudita, Egitto e Turchia ad esempio). In sintesi, il sostegno all’industria militare da parte dei governi non sembra solo motivato da esigenze di autonomia strategica ma anche da motivazioni commerciali che però hanno inevitabili conseguenze sulla sicurezza in ambito regionale.
Ma in particolare questo impegno in ambito militare è compatibile con un modello di sviluppo improntato alla sostenibilità? La risposta è 'no' per diverse ragioni. Il fine ultimo di un sistema economico infatti deve essere la costruzione della pace che – come la stessa storia dell’Unione europea dimostra – è l’asset più importante per garantire sviluppo e prosperità stabili nel tempo. Economia sostenibile ed economia della pace sono infatti sovrapponibili in molti punti e in alcuni casi indistinguibili. In questa prospettiva, non a caso viene in mente il monito che Papa Francesco aveva evidenziato nella lettera enciclica Laudato si’ in merito alla ricerca in ambito militare. Nel delineare il perimetro di una ecologia integrale, in quella enciclica era specificato quanto questa non potesse coesistere con lo sviluppo di un potere tecnologico potenzialmente foriero di morte e distruzione. Invero, lo sviluppo di nuove armi era visto come antitetico a un modello di sviluppo orientato alla sostenibilità. In questo senso, pace e sostenibilità non sono altro che aspetti di un’unica visione dell’economia e della società.
Economia della pace ed economia sostenibile infatti si basano in primo luogo su un’idea semplice ma potente che è quella di incorporare il futuro nelle decisioni economiche correnti. Ma il futuro dell’ecosistema non può dirsi al sicuro se si pongono le basi perché esso sia sottoposto a choc sostanziali come i conflitti armati. In questa prospettiva, la potenziale instabilità dei modelli di deterrenza in un mondo multipolare come il nostro mette a rischio la pace invece di salvaguardarla. Questo monito di Papa Francesco era peraltro contenuto anche nella più recente enciclica Fratelli tutti in cui era ribadita la condanna senza appello delle politiche di riarmo in virtù del fatto che «La pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca»
In questa prospettiva, si potrebbe guardare con favore a un processo di integrazione a livello europeo degli impegni di spesa nell’ambito della difesa se questo fosse foriero di un maggiore coordinamento nella spesa militare che diminuisca infine la spesa dei singoli stati membri. In breve, a differenza di quanto si sta concretando quello di cui avrebbero bisogno i paesi membri dell’Unione Europea, infatti, è una politica di integrazione a livello europeo realmente efficace nell’ambito della difesa, che conduca a una razionalizzazione e quindi a una riduzione della spesa militare. Se l’Unione Europea vuole realmente sposare un modello di sviluppo improntato alla sostenibilità questa è una sfida non può non raccogliere.