Il direttore risponde. «La solitudine pesa e fa disperare» L’antidoto c’è, e bisogna viverlo
Caro direttore,
nella lettera del signor Ferrario riguardo l’impegno a morire di Britt Maynard emerge il complesso dei fattori in gioco che vanno dalla vita come dono e alle cure palliative oggi disponibili, ma anche al divenire solo oggetto di “spesa” per lo Stato e soprattutto alle tante e ostentate manipolazioni di casi pietosi. Derivate, forse da questi ultimi, le scorciatoie verso l’eutanasia. Ciò che però spesso si verifica, e che non mi sembra sufficientemente chiarito anche nella sua risposta, direttore, è la sensazione intima di “peso” del paziente nel periodo di fine-vita nei rapporti con la propria famiglia. Il passo è breve: quando non esista una assistenza completa e una vicinanza continua, si va verso una autocommiserazione che facilita la rinunzia alla vita. Nella mia vita come primario medico ospedaliero ricordo ancora, dopo quasi venti anni, un paziente, grave ma comunque trattabile, che non capivo perché si rifiutasse tenacemente di alimentarsi: in un colloquio, quando ormai era in fase terminale, mi rivelò che temeva di pesare sulla figlia, insegnante con famiglia in una città lontana. È facile immaginare i possibili complessi di colpa di un anziano di fronte alla propria fine imminente quando gli si presentino “agevolazioni” come quelle che si tentano di offrire oggi…
Franco Pecchini, Cremona