Superare residui ideologici. La solida regola del dialogo di fronte all'inedito-Ru486
Caro direttore,
nel dibattito italiano sui cosiddetti diritti civili e, in particolare sul tema dell’aborto, si ha spesso la spiacevole sensazione di affrontare un confronto tra posizioni illuministiche e posizioni teologiche. Uno schema già vecchio da secoli, superato da un Concilio e, prima ancora, da un progressivo avvicinamento delle posizioni contrapposte a favore della libertà e dello sviluppo degli uomini e delle donne nella lotta alla discriminazione e alla disuguaglianza sociale che ha contribuito a disegnare la nostra Costituzione.
Sulla pillola abortiva c’è la necessità di rilanciare il dialogo con un nuovo sguardo sulla realtà che viviamo, perché la prima risposta alla Circolare del Ministero della Salute del 12 agosto 2020 è capire 'chi siamo' in questa contrapposizione. Nel dibattito ci sono da fare dei passi indietro prima di farne qualcuno avanti e bonificare alcuni residui ideologici, sempre in agguato, che inquinano l’efficacia delle posizioni dialettiche. L’embrione soppresso è una vita soppressa. Alla luce delle ricerche scientifiche sulla fertilità e sugli embrioni che sono andate avanti in maniera potentissima in questi 40 anni che ci separano dalla legge 194, continuare a sostenere che un embrione non sia una vita è davvero un residuo ideologico che dovrebbe venir meno nei dibattiti intellettualmente onesti.
Ma la legge 194 non è una legge contro la vita e può essere accettata dai cattolici. Riconoscere che un embrione sia l’inizio di una vita significa rendere di per sé illegittima la legge sull’aborto? No, se si intende la ratio legis della 194 per quella che è: una legge che regolamenta un fenomeno, che lo rende una questione pubblica, non una legge che promuove o che serve a dichiarare una questione di principio. La 194 non è una legge che mette in discussione la dignità ontologicamente intrinseca di un embrione, è una legge intervenuta a disciplinare un fenomeno sociale che non ha bisogno di leggi per esistere: l’aborto verrebbe praticato anche in assenza di una norma che ne regolamentasse i contorni e i dettagli della responsabilità pubblica e privata, con grande aggravio e rischio per le donne che decidano liberamente o che si sentano costrette per svariati motivi ad abortire. Un cattolico che chiede di applicare in ogni sua parte la 194 non sta affermando un valore diverso dalla sua fede, crede nella vita, in ogni vita, dal concepimento alla vecchiaia, comprende semplicemente un’impalcatura legislativa che definisce una cornice entro cui l’aborto viene sottratto sia alla privatizzazione sia all’imposizione pubblica.
Non è una posizione inedita quella dei credenti che contribuiscono alla vigenza di leggi che regolamentano fenomeni sociali esistenti e che una persona ragionevole scongiurerebbe. Le Sacre Scritture ci ricordano che la legge dell’«occhio per occhio» non era, ad esempio, una legge che promuoveva la vendetta, ma regolamentava il fenomeno della vendetta, una pratica diffusissima nel periodo dell’epopea del popolo di Israele. Ci sono diverse missioni in Africa in cui i missionari hanno orientato i fedeli a praticare la regola dell’Abc – Abstinence, Be faithful, use the Condom, cioè: astieniti, abbi fede, usa il profilattico) – per fermare l’epidemia dell’Aids. Non la scelta di una Chiesa di infedeli, ma di una Chiesa consapevole che l’epidemia non sarebbe stata altrimenti fermata da fedeli cristiani che avevano storicamente abitudini sessuali diverse da quelle della monogamia tradizionale.
La posizione di un cattolico di fronte alla legge 194 può essere più o meno paragonabile in termini teorici. È una contraddizione? Credo di no, né nella pratica né nella teoria: nella pratica ogni cattolico è chiamato a difendere e promuovere la vita, senza potersi ergere giudice delle scelte altrui; nella teoria il cattolico che chiede di applicare tutta la 194 chiede che una donna sia accolta da un servizio pubblico, non promuove l’aborto, ma si pone in ascolto e in aiuto di ogni donna. La speranza più intima resta quella della pace e della nonviolenza: nessuna guerra, nessuna discriminazione, nessun giudizio 'contro', solo perdono e tensione alla comprensione reciproca. Ma la città degli uomini e delle donne ha bisogno di regole proprio perché la pace possa avverarsi, nella lentezza del suo cammino universale.
Laici e cattolici che chiedono una seria applicazione della 194 la pensano diversamente sulla pratica farmacologica. Questo, oggi, è il punto. Il dato che preoccupa è principalmente la solitudine esistenziale a cui oggi siamo tutti più o meno esposti. La risposta alla solitudine è il to care, previsione legislativa della 194 troppo spesso disattesa. C’è un deserto che è avanzato in questi quarant’anni grazie al sopravvento della società liquida sui legami di comunità. Il dibattito che scaturisce dalle nuove linee guida non dovrebbe essere, pertanto, centrato sul ricovero o meno, quanto sull’accompagnamento reale della donna teso a prevenire l’aborto, o quanto meno a evitare che una donna lo debba scegliere o praticare in solitudine. La legge 194, infatti, prevede espressamente che questa decisione fosse di interesse pubblico anche se riguarda una singola donna e il suo bambino in stato embrionale, perché la donna che porta in sé una vita non debba prendere una decisione traumatica come se la vita di un altro dipendesse unicamente dalle sue forze. Ciò che si nasconde nelle pieghe del dibattito è, da un lato, la difesa della dignità dell’embrione e, dall’altro, la preoccupazione che si arrivi a medicalizzare la disciplina giuridica dell’aborto, come se si trattasse non di una immane questione sociale o antropologica, ma unicamente di una pratica clinica.
Non credo che la riflessione sulle pratiche di aborto nel 2020 debba concentrarsi nell’affermazione della libertà della donna o sulla famiglia patriarcale. Il maschilismo è incombente e di ritorno, va tenuto sotto controllo sempre, ma non è oggi il principale nemico delle donne. I dati sulla solitudine giovanile e sul disorientamento esistenziale sembrano denunciare nuovi pericoli all’orizzonte: il vero nemico della libertà e del diritto di generare sembra essere l’affermazione dei beni di mercato sui beni relazionali. Non si concepisce più e dunque si abortisce molto di meno, perché sembra impossibile crescere oggi un figlio all’altezza delle esigenze del mercato, degli standard di vita massificanti che ci siamo autoimposti, essere equilibristi tra lavori precari, coppie precarie, mobilità precarie, case precarie e futuri precari, come scrivevano trent’anni fa Ulrich Beck ed Elisabeth Gernsheim in un bellissimo saggio di sociologia coniugale 'Il normale caos dell’amore'.
Su questo aspetto, sull’urgenza di una chiave di lettura sociale e culturale dell’aborto i cattolici giustamente non intendono retrocedere nel dialogo. Un dialogo che oggi va assolutamente rilanciato e rinvigorito e non assolutizzato da una sola delle due parti. Un dialogo che, anche a mio parere, non ha bisogno di rimettere in discussione la 194, ma che si mettano in discussione le nostre comunità non accoglienti.
Presidente della Rete di Economia Sociale Internazionale e della Rete 'Sale della Terra'