Dopo-Genova: un’attesa che si fa proposta. La sfida di conciliare pubblico e privato
Caro direttore,
sotto le macerie del ponte Morandi a Genova è crollata, assieme alla fiducia degli italiani, anche una certa idea 'direttiva' della politica. È crollata assieme agli ultimi resti della cosiddetta Seconda Repubblica, nata male e finita peggio. È crollata, voglio dire, l’idea che per l’ammodernamento del Paese – dopo la ricostruzione del secondo dopoguerra novecentesco affidata a uno straordinario impegno dello Stato nell’economia e nella politica industriale (Iri, Cassa del mezzogiorno...) – servisse un nuovo patto tra pubblico e privato; con un ritrarsi della mano pubblica e un’apertura ai privati nella gestione di asset industriali, finanziari, infrastrutturali fondamentali per la comunità nazionale.
Ne avrebbe tratto beneficio il debito pubblico, e la qualità dei servizi al cittadino. Da qui la filosofia delle privatizzazioni e delle 'concessioni' nella gestioni di servizi di rilievo pubblico. La si condividesse o meno, la ricetta poteva funzionare se lo Stato avesse saputo garantire un’adeguata capacità di controllo, e i privati l’efficienza dei servizi al cittadino cui si impegnavano per contratto. Due condizioni la cui ventennale latitanza, di cui già si avevano non poche avvisaglie, è apparsa lampante nel crollo di Genova. È venuta allo scoperto l’incapacità dello Stato di fare i 'suoi' interessi, che sono poi quelli dei cittadini; e all’inverso - in proporzione matematica nei bilanci delle concessionarie - la capacità dei privati di far troppo i propri interessi.
È in questo senso che risulta sconcertante leggere del «Fattore K e X» – in sostanza il rapporto da rispettare per i privati tra profitti e investimenti – secretato nei contratti di concessione, anche a fronte delle richieste dell’Autorità anticorruzione in omaggio alle regole di trasparenza. Come se si trattasse di accordi di politica estera con Paesi stranieri, magari per impegni militari comuni; e non di accordi domestici, tra le parti, di politica industriale. Un dato politico inquietante che rischia di affossare malamente l’idea che l’Italia possa avvalersi – oltretutto per tenere il passo dell’Europa comunitaria – di un corretto rapporto tra Stato e privati nella gestione dei settori economici, industriali e di servizio, d’interesse pubblico.
Un rapporto di cui, alla luce della situazione del bilancio dello Stato, abbiamo bisogno e che sarebbe interesse generale non lasciare sotto le macerie di Genova. Perché questo sia possibile, c’è bisogno che le cifre che si leggono, superiori al 10%, dei profitti garantiti ai concessionari, non siano percepite dall’opinione pubblica come 'profitti di regime', perseguiti e voluti tra le parti: politica e pubblica amministrazione da un lato, concessionari dall’altro.
A questo fine, al netto delle responsabilità, penali e quant’altre, su cui dovrà far luce la magistratura, sarebbe di grande aiuto – e a più d’uno appare, anzi, ineludibile – un’iniziativa di 'conciliazione' tra le parti: Stato e concessionari. Mostrino al Paese di sapersi lasciare alle spalle, questo passato che è ancora presente: lo Stato l’inefficienza nei controlli e la negligenza; i concessionari la propensione al profitto persino evasiva di propri obblighi di servizio.
Oltre a rivedere le concessioni nel loro impianto generale, si calcoli cioè l’ingiusto profitto realizzato negli anni dai concessionari, e questo ingiusto profitto sia restituito alla comunità in investimenti tempestivi, ad horas, nei servizi erogati. Non c’è tempo da perdere per ricomporre quello che si è spezzato coi piloni di Genova: la fiducia cioè che pubblico e privato possano realizzare insieme quella nuova economia sociale di mercato di cui abbiamo bisogno per dare sostanza al patto costituzionale, e alla funzione stessa della rappresentanza politica che lo deve garantire. Sarebbe davvero significativo se una simile proposta di conciliazione l’avanzassero i privati, senza eccepire distinguo in autotutela tra profitto ingiusto e profitto illegale.
Prima ancora che del codice penale, l’Italia ha bisogno – nella propria azione, anche economica – di codici morali; quelli che nascono da ingiunzioni della coscienza, e non dei tribunali. Quel che è in gioco è l’unità sostanziale della società italiana, un rapporto di rispetto e di solidarietà tra élite e popolo, senza di cui una comunità, prima ancora che un Paese, non va da nessuna parte. Ai tempi della mia lontana scolarizzazione ce lo insegnavano facendoci mandare a memoria l’apologo di Menenio Agrippa. Ne cito solo la chiusa: «... Sic senatus et populus quasi unum corpus discordia pereunt concordia valent». Di discordia si muore, di concordia si sta in salute.
Ordinario di Filosofia teoretica, Università Federico II