Opinioni

Grandi nell'ombra. La scelta del colonnello Petrov, l'uomo che fermò l'apocalisse

Gerolamo Fazzini venerdì 6 settembre 2024

Stanislav Efgrafovic Petrov (1939-2017)

La vicenda umana che evitò la catastrofe verso la quale spingeva il clima di crescente tensione tra le due superpotenze 1983: al culmine del braccio di ferro nucleare tra Stati Uniti e Urss un militare sovietico sventa la rappresaglia atomica di Mosca a un attacco americano. Che non c’era «Vedremo soltanto una sfera di fuoco/ più grande del sole, più vasta del mondo;/ nemmeno un grido risuonerà / e solo il silenzio come un sudario si stenderà / fra il cielo e la terra, per mille secoli almeno, ma noi non ci saremo». C’è stato un momento, nella storia recente, nel quale la tremenda profezia cui allude questo brano – scritto da Francesco Guccini nel 1966, portato poi al successo dai Nomadi – è sembrata vicinissima a concretizzarsi. Non fosse stato per Stanislav Efgrafovic Petrov, il 26 settembre 1983 la guerra nucleare sarebbe potuta scoppiare. Davvero.

A salvare il mondo dal rischio-apocalisse furono prontezza e coraggio di un tenente colonnello delle Forze di difesa aerea sovietiche, che all’epoca aveva 44 anni. Eppure quel gesto è stato a lungo dimenticato. Il protagonista di quell’evento drammatico è morto in solitudine il 17 maggio 2017, in un sobborgo di Mosca. Benché si possa senz’altro definire Petrov un eroe (a lui però la cosa non piaceva: amava dire di essersi trovato al posto giusto nel momento giusto), «la sua morte non venne riportata ampiamente all’epoca », come scrisse il New York Times il 18 settembre 2017. Paradossale, visto che, come recita l’incipit di un articolo uscito il giorno dopo su El País, «dicono che il mondo non sia mai stato così vicino alla distruzione come quel giorno». Ventun anni prima, nel pieno della crisi di Cuba, era toccato a un altro ufficiale sovietico, tal Vasili Alexandrovich Arkhipov, assumersi la responsabilità di un gesto simile: convincere il suo superiore, comandante di un sommergibile di stanza nelle acque dei Caraibi, a non sganciare una testata nucleare in risposta a un presunto attacco americano.

Ma torniamo a Petrov, cercando di capire cosa accadde in quella notte del 26 settembre 1983, in cui si sarebbe potuto innescare lo scenario predetto da Einstein dopo Hiroshima («Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza Guerra mondiale, ma la quarta sarà combattuta coi bastoni e con le pietre»). Dalla stazione di avvistamento sovietica che comandava, alla periferia di Mosca, Petrov riuscì a individuare un falso allarme dei computer, i quali segnalavano cinque missili nucleari diretti dagli Stati Uniti verso la capitale dell’Urss. Si trattava, in realtà, di riflessi sulle nuvole di onde elettromagnetiche lunari. Petrov – che, ironia della sorte, si trovava lì per caso, al posto di un collega assente – decise di non informare i suoi superiori e, così facendo, evitò che si scatenasse una reazione potenzialmente fatale non soltanto per i Paesi coinvolti.

L’avventura di Petrov si colloca in uno dei periodi più tesi della Guerra fredda. Siamo a metà strada fra le Olimpiadi di Mosca del 1980, boicottate dagli Usa e da molti Paesi occidentali, e quelle del 1984 di Los Angeles dove, per reazione, tanto l’Urss quanto i “Paesi satelliti” non schierarono i loro atleti. Le due superpotenze si trovavano letteralmente con i nervi a fior di pelle. Il cosiddetto “equilibrio del terrore” ( Mutual Assured Destruction, il cui acronimo in inglese suona Mad, ossia “pazzo”) prevedeva una strategia di dissuasione finalizzata a scoraggiare il nemico dal lanciare un attacco nucleare con la minaccia di una massiccia rappresaglia. Risultato: gli arsenali nucleari crescevano a dismisura.

Al solito, Hollywood aveva captato in anticipo lo spirito dei tempi: è nel 1983, infatti, che uscì il tecno-thriller War Games, incentrato sulla storia di un hacker che, entrato per sbaglio nel server della difesa nucleare degli Stati Uniti, rischia di scatenare la terza guerra mondiale. Prima ancora, nel 1964, l’opinione pubblica mondiale era stata scossa da due cult: Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick e A prova di errore, diretto da Sidney Lumet. Non basta: il 20 novembre 1983 andò in onda il film The Day After, che immagina un attacco nucleare incrociato fra Usa e Urss e le terribili conseguenze, visibili fin dal giorno dopo.

Tensioni politiche, incubo nucleare e umori popolari si contagiavano a vicenda. L’8 marzo 1983 il presidente statunitense Ronald Reagan, in un celebre discorso, definì l’Urss «impero del male» e poco dopo annunciò il varo di un sistema di difesa strategica innovativo che presto i media avrebbero battezzato “scudo spaziale”, o “guerre stellari”, dal titolo della fortunata serie di George Lucas. Ebbene: in un contesto del genere è facile intuire come la tensione all’interno dei rispettivi sistemi militari fosse alle stelle. Non bastasse, proprio nel settembre 1983 un caccia sovietico aveva abbattuto un aereo della Korean Air Lines, penetrato per errore nello spazio aereo dell’Urss, facendo 269 vittime.

Come riuscì, dunque, Petrov a sottrarsi a un clima che sfiorava l’isteria («mi sentivo come se fossi seduto su una padella bollente») e a mantenere la lucidità necessaria, tenendo conto che fra il lancio e la detonazione sarebbero passati al massimo 25 minuti? Tre le ragioni, a detta dello stesso protagonista. In primo luogo l’ufficiale sovietico sapeva che un eventuale attacco nucleare americano sarebbe stato massiccio e, quindi, era altamente improbabile che si limitasse al lancio di soli cinque missili. Secondo: non aveva ricevuto segnalazioni anomale dalle installazioni radar a terra. Ma soprattutto Petrov, come avrebbe successivamente dichiarato in un’intervista, era consapevole che il sistema di difesa adottato dall’Urss fosse «grezzo» (parole sue) perché messo in servizio in tutta fretta.

Appena avuta conferma del cessato pericolo, Petrov festeggiò scolandosi mezzo litro di vodka e dormendo per 28 ore di fila. Invece che essere premiato, però, venne messo sotto accusa dai superiori che gli rimproverarono di non aver tenuto traccia degli eventi nel diario di bordo («avevo il telefono in una mano e il citofono nell’altra e non ho una terza mano», si difese). Sta di fatto che la libertà intellettuale di un uomo cresciuto in epoca staliniana, ma che sapeva pensare con la sua testa, gli ha garantito quella indispensabile lucidità che, anni dopo, l’avrebbe incoronato come L’uomo che fermò l’apocalisse, come suona il titolo di un libro di Roberto Giacobbo (Rai-Eri 2017). In effetti, seppur tardivamente, il mondo ha riconosciuto in Petrov L’uomo che salvò il mondo, titolo di un film-documentario del 2014, con Kevin Costner. Non è tutto: nella primavera scorsa, a Roma, è andato in scena lo spettacolo teatrale Petrov (sottotitolo: «Una storia che riguarda di nuovo da vicino ognuno di noi»).

Quel che più conta è che nel 2013 l’Onu ha riconosciuto l’enorme valore del gesto di Petrov, proclamando il 26 settembre “Giornata internazionale contro le armi nucleari”. Siglato nel 2017, il Trattato per la proibizione delle armi nucleari non è ancora entrato in vigore e l’Italia è tra i Paesi che non l’hanno ancora ratificato. Vale la pena, quindi, custodire una frase che Petrov pronunciò in un’intervista a Der Spiegel: «Quando giochiamo a fare Dio, chi può sapere quale sarà la prossima sorpresa?».