Le sette canonizzazioni di domenica. La santità vertice di vita nella Chiesa
Sette arazzi affacciati dalla Loggia di una piazza che, per quanti ne ha visti, lungo i secoli, potrebbe chiamarsi non solo San Pietro ma piazza della santità, perché è da qui che prende il via l’ultimo tratto di un percorso tra terra e cielo, del quale è preludio una celebrazione di così intensa bellezza come la canonizzazione. Un papa e un vescovo, due curati d’anime e due suore, gli stati maggiori, dal fronte dei consacrati, per l’annuncio e la pratica del Vangelo. E un laico, un giovane operaio al quale toccò lavoro, fin da piccolo, alla bottega della sofferenza. Sette arazzi, un racconto, anzi una trama di santità intrecciata come non mai in un misterioso ricamo che parla di Chiesa e di vita. Romero accanto a Paolo VI che in vita gli diede coraggio, e Papa Montini a fianco di Caterina Kasper, la religiosa tedesca da lui proclamata beata nell’aprile del 1978 in una delle ultime celebrazioni prima della morte.
E vicini i due santi napoletani, don Vincenzo Romano, il parroco faticatore di Torre Del Greco, e Nunzio Sulprizio, beati al tempo del Concilio e, quindi, anch’essi per mano del pontefice dell’arazzo accanto. La santità si fa largo da mille e più strade, ma sempre tiene lontana l’insidia del bivio tra fede e vita, sicché è essa il vertice di come stare nella Chiesa; e non meno di come stare nel mondo. Questo raccontavano, tutti insieme, e ognuno a suo modo, i sette santi di una domenica d’ottobre, tutta piena di Concilio e ritagliata nel cuore di un Sinodo che Francesco, dedicandolo ai giovani, ha posto in quella scia, perché non si allenti la presa di quell’abbraccio al mondo e, e su di esso si spalanchino ancora più quelle finestre che in molti, rinfacciando alla Chiesa l’antica attitudine alla prudenza, vorrebbero invece tenere socchiuse.
Raccontavano, i nuovi santi, di una chiesa che volta le spalle a quelle 'mezze misure' evocate da Francesco come la misura certa del fallimento e della tristezza, dei ponti tagliati, dei muri innalzati, dei cammini avvelenati che, per mare e per terra, fermano e condannano chi va in cerca di un tetto o di una patria, di libertà o di un tozzo di pane. Ed era un racconto fatto di altre parole, anzi di opere che, a loro volta, parlavano di carità, compassione, accoglienza. Un linguaggio che da solo, e tanto più oggi, serve a mettere con le spalle al muro chi guarda i numeri e non le persone, e chi perfino fa caso al colore della pelle.
La santità attraversa i secoli ma resta sempre senza tempo. E così è possibile riportare e spendere per l’oggi la dottrina e la sapienza di un Papa, Paolo VI, che ha irrevocabilmente aperto, nelle stanze della cultura moderna, la Cattedra del Dialogo; come il martirio di un Pastore, Oscar Romero, che per il suo popolo ha dato la vita. Testimonianze fatte anche d’altro, come la predilezione per i poveri e i derelitti delle due suore, entrambe fondatrici, il sacerdozio tutto eucaristico di don Francesco Spinelli o il genio pastorale di un parroco di paese, don Vincenzo Romano, per il quale vale ancora oggi il detto secondo il quale «ogni torrese ha il mare in casa e don Vincenzo nel cuore».
Senza contare il lascito dell’unico laico, Nunzio Sulprizio, che s’affacciò alla vita per lasciarla presto – non aveva ancora vent’anni – nel segno di una dedizione totale agli altri. Anche da questi due santi napoletani è stato possibile, domenica, trarre un racconto per l’oggi. Riguarda naturalmente la stessa Napoli, nelle cui cronache quotidiane si stenterebbe a rintracciare la presenza di santi. Ma, dati alla mano, non esiste altra diocesi al mondo con un maggior numero di canonizzazioni e perfino di processi in corso. Non è stato detto che la santità è segno di contraddizione?