Corruzione è una parola immonda, repulsiva. Sentirsela addosso è peggio d’un osso rotto, è una rogna dell’anima. Una frattura s’aggiusta col tempo, un delitto si paga e si emenda; la rogna invece ti fa rognoso "dentro", durevolmente, ti lascia con le tua maschera intatta di sano apparente nella palude del marcio. Corruzione è sentore di putredine. Dice sconfitta e smentita, dice infedeltà e disconferma, disinganno e abiezione. In una società civile, che ha bisogno di conferire ad alcuni soggetti le funzioni (e i poteri) che occorrono alla sua vita e al suo sviluppo, e che in loro deposita la sua fiducia umana, la sua "civica fede" ancorata all’obbedienza delle regole, la corruzione è figura di elementare tradimento, e di cinica beffa sul senso delle regole e della giustizia nelle mani dei forti.Vent’anni fa, quando scoppiò Tangentopoli, a molti parve un sogno che una ventata d’uragano scoperchiasse le fogne nascoste della vita pubblica e privata italiana, le impure intese clientelari fra potere economico e potere politico, i favori venduti, le avidità saziate fuorilegge. Scintillò il momento, fra qualche eccitazione e qualche dismisura, di una promessa rivoluzionaria collettiva, virtuosa nelle intenzioni: "Come prima mai più". Non solo in politica, ma dappertutto. Oggi torniamo a guardare la marea risalita sulla spiaggia che si tentò di drenare, e apprendiamo che l’onda fangosa è tornata a coprire, a ridisegnare il paesaggio. Sentiamo dire dalla Corte dei Conti che nell’ultimo anno, in base alle denunce, i casi di corruzione (237 registrati) sono aumentati del 30 per cento rispetto all’anno prima. Che peraltro le denunce complessive sono in forte flessione, come rivelassero un allarme indebolito, infiacchito, dubitoso della propria importanza di fronte a un costume che sembra assuefatto alla corruzione come a una normalizzata temperie culturale.Ci viene un moto di rivolta di fronte a questo giudizio che ci disonora, e vorremmo contestarlo. Ma quando cerchiamo riscatto confrontandoci col mondo, meglio star zitti: c’è chi ci classifica in sede internazionale al 67simo posto in termini di trasparenza, dietro al Ruanda. Non ci siamo dunque levati di dosso quella vecchia lebbra. I suoi ultimi fetori, in cronaca recente, ci pressano senza filtri territoriali o federalisti, c’è puzza ovunque. Una parola casta e innocente del codice civile, come "appalto", sembra ormai diventata una parola oscena, da evitare se ci sono bambini. E talvolta ci fa rabbia anche la Corte dei Conti, bravissima a denunciare i disastri che deve perseguire, senza poi spiegarci com’è andata a finire, e se chi doveva pagare i miliardi ha pagato poi davvero qualche centesimo. D’istinto, nei momenti di rabbia, s’invoca la sferza. Da noi le leggi-sferza anche ci sono, e fioccano persino. Ma qualcosa poi s’inceppa, qualcosa non gira. Se riuscissimo a infilarla nella coscienza, la sferza. Anzi no, se riuscissimo a inserire nella coscienza l’opposto vincente, cioè il piacere dell’onestà. Scorrendo la storia a spanne di secoli, sta durevole sul mondo l’invettiva profetica contro chi «si vende per un paio di sandali». Non è un messaggio ai delinquenti, la libertà onesta, è la vocazione coerente per ciascun uomo libero. Dentro quel supermercato di se stessi che è divenuto il mondo, si desti la libertà dal male, la libertà del bene.