Venerdì Santo. La roccia della morte si apre. C'è una parola che dà luce
Alessandro D'Aveniavenerdì 3 aprile 2015
«Non ho più abbastanza allegria né salute per impegnarmi in soggetti tristi. La Crocifissione mi ha fatto star male, ho provato molta pena, ma un Cristo portacroce finirebbe con l’uccidermi. Non potrei resistere ai pensieri penosi e seri di cui bisogna riempire lo spirito e il cuore per riuscire in soggetti di per sé così tristi e lugubri. Dunque risparmiatemi, per favore» così scrive Nicolas Poussin a Jacques Stella che gli ha commissionato una Salita al Calvario, dopo che aveva visto la sorprendente Crocifissione dipinta per De Thou, a cui l’artista aveva dedicato i mesi dal novembre 1645 al giugno 1646. Qualche settimana fa mi trovavo di fronte a questo quadro e ho visto, trasformati in forme e colori, il dolore di cui parla l’artista che è riuscito così a rappresentare l’eclissi della luce su una tela. Si può dipingere il buio e con il buio? Poussin riesce. Crea un buco nero artistico in cui si assiste all’implosione della luce, in una specie di anti-primo-giorno della creazione: la luce non fu. Il cielo dello sfondo precipita nell’assenza totale e le rocce del paesaggio sono macchie evanescenti: la materia è annichilita quanto il suo creatore. Con la parola “materia” i Romani indicavano il concretissimo legno degli alberi. La materia del creato è servita a forgiare lo strumento di tortura per il creatore. A parte il movimento impressionante dei manti rossi che attraversano il quadro in una specie di “s” coricata, la scia di sangue della storia umana, sangue versato dalla violenza (i soldati), sangue dato per la vita (Maria, Giovanni, il ladro buono), tutte il resto è fatto da gradazioni di buio che inghiottono figure umane ridotte a fantasmi. Tutto è cacciato nella notte che si merita. Ai piedi della croce, sul piano medio, al centro, c’è un personaggio che si volge verso lo spettatore e gli chiede conto di ciò che sta accadendo e se c’entri qualcosa con quella tenebra che sta inghiottendo tutto. Gli uomini sono in primo piano, con la loro violenza: soldati che si giocano a dadi le vesti del crocifisso, due di loro sono sorpresi da qualcosa che esce dal buio della terra in un movimento opposto alla tenebra celeste: dalla pietra di un sepolcro emerge un uomo contro il quale il soldato sguaina un pugnale. L’uomo, erompendo dalla fessura della terra al centro dei due triangoli composti dalle figure ai due lati del quadro, fissa Cristo immerso nella tenebra, mentre lui in un manto bianco, unico punto di luce, è la primizia dei risorti di cui parla Matteo: «Gesù emesso un alto grido spirò... la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti resuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la resurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti» (Mt 27, 50-53). La roccia della morte si apre come un bozzolo molle di crisalide, la morte che pietrifica col volto di Medusa, paralizzando il soffio di Dio (anima, da anemos, vento), è ammorbidita, la materia ha un sussulto, perché l’uomo-Dio si è sottoposto alla pietrificazione della morte e, spirando, l’ha resa di nuovo fluida e viva: Da dentro. Il suo corpo non conosce corruzione (questo vuol dire resuscitare: preservare dalla corruzione) e la Morte diventa più piccola della Vita, perché la Vita l’ha inghiottita dentro di sé, sperimentandone l’avvelenamento, ma strappandole il pungiglione e rendendo il veleno inefficace. Adesso si allarga una luce silenziosa in mezzo alle tenebre, in ogni cuore che si volga a guardare Colui che hanno trafitto che, subendo nella sua materia le conseguenze delle nostre tenebre, restaura la materia dell’uomo e gli restituisce la condizione di luce: «Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me», aveva detto. Questo è il movimento centripeto e inconsapevole del quadro e del mondo e di tutti i suoi elementi, materiali e umani. Il centro di questo buco nero divino è la figura di Cristo: attorno a lui trionfa il non-colore della solitudine e del male, egli diventa un buco nero al contrario, inghiotte tutto il buio della storia per ridare luce a noi. Non fa forse questo la Parola? Dare luce alle cose e dare alla luce le cose. Attira tutto il buio a sé e ci restituisce la luce nella quale possiamo ri-conoscere (conoscerlo di nuovo e come nuovo) il nostro volto. Lo abbiamo noi questo volto? Convinceremmo Nietzsche che asseriva che avrebbe creduto al cristianesimo se avesse visto nei suoi seguaci “il volto dei risorti”? Potremo se ci volgeremo a lui riconoscendo tutta la nostra tenebra, perché sia soggettivamente e progressivamente rischiarata, perché la tenebra è inversamente proporzionale alla croce, come scopre il poeta, al cospetto delle macerie della città degli uomini devastata dalla guerra mondiale: «Vedo ora nella notte triste, imparo, / So che l’inferno s’apre sulla terra / Su misura di quanto / L’uomo si sottrae, folle, / Alla purezza della Tua passione» (G.Ungaretti, Mio fiume anche tu).