Infrastrutture. Nel Sud del mondo la risposta Ue alla “via” cinese
Con Global Gateway l’Ue vuole fare concorrenza all’espansionismo della Cina di Xi
L’Unione Europea non la mette così, ma l’idea è chiara: fare concorrenza alla “Belt and Road Initiative” (Bri), la “nuova Via della Seta”, il progetto fiore all’occhiello del leader cinese Xi Jinping. In gioco sono i Paesi meno sviluppati dell’Africa, anzitutto, ma anche dell’Asia e dell’America Latina e, soprattutto, per dirla con gli americani, ”le menti e le anime” di milioni di persone che vivono in queste regioni. Ecco quello che sta dietro il progetto Global Gateway, la risposta Ue alla Bri, nel timore degli europei di esser messi sempre più in ombra dal gigante cinese che, tra il 2014 e il 2018, secondo varie stime, nel quadro del Bri ha fornito prestiti per 400 miliardi di dollari. La stessa Pechino afferma di aver firmato contratti per 100 miliardi di dollari nel solo 2022. Le cifre della Belt and Road Initiave del resto sono solo una parte dell’avanzata di Pechino nel mondo: a partire dal 2005, la Cina è arrivata alla fantasmagorica cifra di 2.300 miliardi di dollari per un totale di 4.000 investimenti esteri in infrastrutture fisiche. Strade, porti, miniere e altre opere che fanno gola a milioni di africani o del Sud dell’Asia, dall’Etiopia al Bangladesh o all’Indonesia.
L’ Europa osserva inquieta, anche perché, commenta un diplomatico Ue, «il messaggio dei cinesi è che si possono avere investimenti e infrastrutture anche senza doversi preoccupare di cose come la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani ». « Le democrazie – si legge invece nell’incipit della comunicazione sul Global Gateway – e i valori che le sostengono devono dimostrare la loro capacità di rispondere alle sfide globali di oggi. Devono avere la capacità e l’ambizione necessarie per migliorare le vite delle persone in giro per il mondo». C’è, del resto, anche una questione più strettamente economica: uscire dalla logica del classico aiuto allo sviluppo, alla ricerca di un percorso a doppio senso: aiutare sì i Paesi più poveri a cercare la prosperità, ma anche far sì che questo aiuto abbia un risvolto economico positivo per l’Europa. «È una svolta senza precedenti », dice un alto diplomatico Ue. Certamente, è una sfida epocale.
A chiedere alla Commissione un’alternativa europea alla Bri cinese sono stati, nel 2021, gli Stati membri. Il primo dicembre di quell’anno, la presidente Ursula von der Leyen ha presentato di persona, e in pompa magna, il Global Gateway. «Il modello europeo – ha detto – è sostenere investimenti nel digitale, nel clima e nell’energia, nei trasporti, nella sanità, nell’istruzione e la ricerca, in un quadro favorevole che garantisca parità di opportunità. Sosterremo investimenti intelligenti in infrastrutture di qualità, rispettando i più elevati standard sociali e ambientali, in linea con i valori democratici della Ue e gli standard e le norme internazionali ». «Con il Global Gateway – le fa eco l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell – riaffer-miamo la nostra visione di rilanciare una rete di connessioni che deve esser basata su standard, regole e normative accettati a livello internazionale per creare un terreno di gioco equo per tutti».
In gioco molti soldi, ma qui si annida un primo problema. La Commissione promette in totale almeno 300 miliardi di euro di investimenti, ma a tale cifra si può arrivare con l’effetto leva: di soldi pubblici c’è poco, la speranza è che l’impegno e le garanzie di Ue e Stati membri possa invogliare i privati a investire. Una bella differenza rispetto alla Nuova via della Seta: Pechino ha in cassa miliardi da spendere, come dimostrano le cifre che citavamo, e il governo ha la possibilità di invogliare le maggiori società del Paese a seguire il piano del governo e, dunque, a investire come e dove richiesto. Per l’Europa, risulta decisamente più complicato.
Cruciali per il piano di Bruxelles avallato dai governi sono l’Efsd+ (il Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile “Plus”) e la Bei (Banca europea per gli investimenti). Complessivamente, si parla di circa 40 miliardi di euro messi a disposizione soprattutto in termini di garanzie per facilitare gli investimenti. Attenzione: non soldi nuovi, ma già parte del bilancio pluriennale 2021-27 – anche questo un punto che ha suscitato alcune critiche. Quanto ai progetti, non si parla tanto di strade, ponti, dighe e fabbriche come sta facendo la Cina, ma di altre priorità. Che sono la transizione digitale, con la creazione di reti e infrastrutture; connettività energetica in vista della transizione verde; reti di trasporto «intelligenti, resilienti, inclusive e sicure»; la sanità, come la sicurezza delle catene di approvvigionamento dei farmaci (problema esploso con la pandemia del Covid-19) e lo sviluppo di produzione locale, ad esempio di vaccini; rilancio di ”formazione di qualità”.
Attenzione: la Ue chiede ai Paesi interessati di rispettare una serie di principi chiave per poter accedere a questi prestiti agevolati: valori democratici e rispetto dello Stato di diritto, trasparenza, responsabilità chiare, sostenibilità finanziaria. Principi sacrosanti, non deve però stupire se governi con chiare tendenze autoritarie preferiscano i soldi senza questo tipo di condizioni offerti da Pechino. Su un punto insistono a Bruxelles: i prestiti cinesi sono spesso capestro: i Paesi meno sviluppati non in grado di ripagarli sono poi costretti a svendere a Pechino infrastrutture importanti. Com’è successo allo Sri Lanka: dopo aver costruito con i soldi cinesi il porto di Hambantota, ha dovuto poi cederlo agli stessi prestatori, non essendo in grado di ripagare l’enorme somma. Il Global Gateway, spiegano alla Commissione, «non crea dipendenze anche perché noi facciamo in modo che i prestiti siano sostenibili per i Paesi beneficiari».
Dal lancio del Global Gateway, del resto, l’Ue è stata accusata di parlare molto e fare poco. Per questo nel gennaio scorso Von der Leyen, incontrando i ministri degli Esteri dei Ventisette, è stata chiara: occorre far vedere risultati concreti già nel 2023. E in effetti gli Stati membri hanno dato il via libera a una lista di circa una settantina di progetti in America Latina e Caraibi, Africa, Asia. Tra i progetti, c’è ad esempio la posa del cavo sottomarino di fibra ottica “Medusa” di 8.500 km che collegherà direttamente l’Europa meridionale (Italia, Portogallo, Spagna e Grecia) con il Nord Africa (Marocco, Algeria, Tunisia ed Egitto) per più veloci connessioni Internet. Prevista anche la posa di un cavo sottomarino di interconnessione elettrica ad alto voltaggio tra Tunisia e Italia. Restando in Africa, si possono citare progetti come la costruzione del grande impianto idroelettrico RuziIII per fornire energia a Congo, Ruanda e Burundi. O ancora la costruzione di impianti fotovoltaici in Niger, Costa d’Avorio, Benin, Namibia. S postiamoci in Asia e troviamo la costruzione della grande diga di Rogun in Tajikistan, per raddoppiare la capacità di produzione di energia della Repubblica ex sovietica, aiutandola a renderla sempre più indipendente dalla Russia. Grandi progetti di impianti idroelettrici sono per il Vietnam; per il Bangladesh sono previsti investimenti per impianti eolici e solari; sostegno alle rinnovabili anche in Indonesia. Infine, guardando all’America Latina, vi sono progetti per la produzione di idrogeno verde in Colombia; impianti di acqua potabile in Ecuador; l’estensione dell’accesso al programma Bella per l’interconnessione digitale tra l’Europa e l’America Latina. Per vederne l’impatto reale, dicono i diplomatici, dovremo aspettare ancora alcuni mesi. Allora si capirà se l’Europa ha chance di far decollare la sua ”Via della Seta”.