Anche gravi squilibri economici alla radice della crisi sahariana. La rischiosa inutilità delle guerre annunciate
L’indice dei prezzi mondiali delle materie è aumentato del 180% tra il 2003 e il 2012. Nello stesso periodo il prezzo del petrolio è cresciuto del 256% e l’indice dei prezzi alimentari del 100%. Quindi, da un lato, sono aumentate le rendite derivanti dal commercio internazionale delle materie prime a favore dei governi dell’area e, dall’altro, si sono manifestate una diminuzione del potere d’acquisto e un aumento della povertà per le fasce di popolazione più vulnerabili. Insicurezza economica, polarizzazione e marginalizzazione sono aumentate.
Perché Mali e Algeria? In Algeria, si era fatto sfregio della democrazia nel 1991 quando sono stati invalidati i risultati delle elezioni vinte da un partito islamico. Negli anni seguenti, l’élite che ha governato il Paese ha fatto poco per il suo sviluppo, incancrenendo i rancori e le frustrazioni sociali che avevano motivato la diffusione dell’islamismo radicale nella popolazione. L’economia dipendente dal petrolio stenta a creare opportunità per la maggior parte della popolazione. Il 95% del valore delle esportazioni è legato agli idrocarburi, ma solo l’élite di governo e una parte della popolazione godono delle rendite petrolifere. Dal canto suo, il Mali, benché esportatore di oro, è uno dei venticinque Paesi più poveri al mondo, caratterizzato da una profonda polarizzazione sociale. Circa il 50% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e l’aspettativa di vita è di appena 51 anni. Solo il 26% della popolazione di età superiore ai quindici anni è in grado di leggere e scrivere. Questi dati sono più gravi nelle aree periferiche del Paese, e in particolare nel Nord.
L’Undp (il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) ha sottolineato che tra il 2011 e il 2012 il Mali ha sofferto gravemente la crisi alimentare che ha investito le aree più periferiche e marginalizzate dal punto di vista politico. In queste zone il numero di bambini rachitici e la mortalità infantile sono significativamente superiori alla media africana. Le ragioni della recente esplosione di violenza non risiedono certamente solo nell’insicurezza economica, ma la povertà rappresenta un humus adatto al dilagare del fondamentalismo, anche nelle sue forme più feroci. Per questo una delle soluzioni alla crisi deve prevedere anche interventi di carattere economico. In quale direzione?
In primo luogo, è necessaria una cooperazione a livello globale per la stabilizzazione dei prezzi delle materie prime. E qui le responsabilità del G20 sono serie (dovrebbe, infatti, essere il forum ideale per tale cooperazione a livello internazionale). Un secondo aspetto riguarda le relazioni con i Paesi europei. Alcune ex potenze coloniali mantengono di fatto un diritto di intervento privilegiato nelle ex-colonie. Un colonialismo reale nella sostanza, politically correct nella forma, ma comunque anacronistico e insostenibile nei nuovi scenari della globalizzazione. Un cambio di rotta non è più procrastinabile. Chi dovrebbe guidare tale processo? Candidata naturale non può che essere l’Unione Europea. L’Unione si è vista recentemente assegnare il Nobel per la Pace per il ruolo pacificatore svolto nel Vecchio Continente. La pacificazione in Europa si è raggiunta per mezzo dell’integrazione economica. Ed è giunto il momento di estendere i benefici dell’integrazione economica anche ai Paesi vicini.
L’Unione dovrebbe sviluppare una politica estera 'nuova', meno muscolare rispetto allo schema classico esemplificato in questi giorni dalla Francia, e quindi più incentrata sulla cooperazione economica e commerciale. Così come per l’Europa, solo la costruzione di un sistema economico integrato, stabile e sostenibile può rendere queste crisi 'impensabili'. Le azioni militari annunciate in questi giorni sono, invece, rischiosamente inutili. Come tutti i conflitti armati, non rimuovono le cause che li hanno scatenati. Sono il preludio alla prossima crisi, probabilmente nel Niger.