Dopo il successo delle primarie del Partito Democratico. La rischiosa asimmetria del quadro politico
Tornando al centrosinistra, si può osservare che il successo di Pierluigi Bersani, tallonato da Matteo Renzi, esprime la forza di una linea di continuità e di legame con la struttura organizzata del Partito democratico (che non è fatta solo di 'apparato' ma anche di sedi territoriali e di aggregazioni culturali) e, insieme, quella di una spinta per l’innovazione meno imbrigliata dai tatticismi e da qualche incrostazione autoreferenziale della 'nomenclatura'.
Al di là egli aspetti che attengono soprattutto a problemi di vita interna del partito, di accelerazione o meno dell’avvicendamento del personale politico, la scelta che gli elettori del centrosinistra dovranno compiere nelle votazioni di ballottaggio riguarda temi politici di carattere più generale. Bersani, anche per l’ovvia preoccupazione di attirare i consensi andati a Nichi Vendola nel primo turno, ha già sottolineato l’ampiezza delle convergenze con gli obiettivi di Sinistra e libertà. Naturalmente tutto ciò è declinato al futuro, visto che nel tempo presente la distanza tra il segretario di un partito che appoggia il governo e il leader di una formazione di opposizione che accusa ogni giorno Mario Monti di praticare la «macelleria sociale» è tutt’altro che trascurabile. Il margine di ambiguità contenuto in questa captatio benevolentiae nei confronti della sinistra di opposizione, se può avere effetti positivi per Bersani nella conclusione della consultazione interna, rischia però di presentare poi all’elettorato generale una proposta di governo ancora una volta minata da contraddizioni interne.
L’ipotesi sostenuta da Renzi, quella di una «vocazione maggioritaria» delle liste di un Pd capeggiate da lui, ha una sua coraggiosa linearità, anche se viene criticata per un presunto eccesso di autosufficienza. Insomma, se le primarie hanno chiarito le impostazioni alternative presenti nel centrosinistra, non hanno però risolto i problemi oggettivi che ciascuna porta con sé. In ogni caso risulta abbastanza evidente che il successo delle primarie del centrosinistra abbia accentuato l’asimmetria della situazione politica, che vede le aree di centro e centrodestra ancora prive di una proposta effettivamente competitiva.
Oltre che sul terreno della dialettica democratica, questa asimmetria rischia di ostacolare passaggi politici assai rilevanti, a cominciare dalla riforma della legge elettorale. In queste condizioni è evidente che il centrosinistra può continuare a ritenere conveniente tenersi la legge che c’è, che pure ha contribuito a criticare fino a poco tempo fa, con argomenti assai fondati e condivisi, a cominciare dalla questione della selezione e del collegamento territoriale dei mandati parlamentari.
Gli accenni sia di Bersani che di Renzi a una soluzione 'interna' del problema, con primarie per la definizione delle candidature, sembra alludere a una scelta che tende a chiamarsi fuori dal confronto per una riforma del sistema elettorale, e questa sembra una scelta un po’ furbesca e opportunistica. Esimersi da questa responsabilità, in fondo, sarebbe un pessimo segnale: darebbe l’idea di un’area politica che intende, approfittando dalle divisioni delle squadre avversarie, aggiudicarsi il successo per squalifica del campo. Cioè, fuori dalle metafore sportive, approfittare degli aspetti nefasti ma comodi di una legge elettorale gravemente carente.
Queste considerazioni, naturalmente, non tolgono neanche mezza responsabilità dalle spalle dei competitori-interlocutori del centrosinistra. Se non sapranno lavorare per una legge elettorale decente e ottenerla, e se frantumeranno il proprio fronte, le forze che si collocano nella cosiddetta area moderata porteranno la responsabilità delle loro scelte. Primarie o non primarie, è una responsabilità comunque primaria.