La riconciliazione non è privilegio e per la pace bisogna saper bene-dire
Egregio direttore,
sabato scorso 22 febbraio abbiamo letto l’articolo di Gianni Gennari nella rubrica “Lupus in pagina” in cui si stigmatizza quanti, dopo 90 anni, si ostinano a chiedere la revoca del Concordato. Le facciamo presente che tra questi – chiamati da Gennari “ritardatari”, forse alludendo a ritardati di mente – vi siamo anche noi credenti in Gesù, nostra pace, delle Comunità di Base italiane. In verità, noi chiediamo da oltre 50 anni alla Chiesa cattolica italiana di rinunciare al privilegio concordatario, così come auspicava il Concilio Vaticano II, forse dimenticato anche da Gennari. Che sia un privilegio basta pensare al diverso trattamento con le altre confessioni religiose e con il regime dell’8 per mille, che fa pagare contributi alla Chiesa anche ai non credenti. Come lei saprà noi delle Comunità cristiane di Base abbiamo rinnovato tale richiesta in occasione dell’anniversario del rinnovo della firma del Concordato del 1984, voluto da Craxi. Nella lettera aperta che abbiamo indirizzato al Presidente della Cei – che non ha avuto grande diffusione e che neppure il suo giornale ha avuto il merito di riproporre – abbiamo in particolare reiterato la richiesta affinché la Chiesa Italiana rinunci all’assistenza spirituale dei militari con dei preti con le stellette. Non esistono forse i cappellani delle carceri e degli ospedali? A noi sembra infatti antievangelico benedire uomini che posseggono armi. Papa Francesco parla della follia della guerra e dell’ipocrisia di quanti parlano di pace con le armi in mano. Come non accorgersi che è una pazzia mantenere un clero con le stellette e che è un’ipocrisia invocare da Dio la pace e poi benedire le Forze Armate? Quale contraddizione antievangelica! Noi non ci possiamo rassegnare e continueremo a bussare perché nella Chiesa si apra la porta della pace. Papa Francesco richiama i cristiani all’estremismo della carità. Noi lo tentiamo. Con fraterni auguri di pace nonviolenta.
Vi offro, gentili amici, una risposta in tre parti, con una piccola considerazione finale. Primo. I lettori sanno che non ho mai creduto – nonostante la fortuna di cui ha goduto e gode una battuta resa celebre da Giulio Andreotti – che “a pensar male ci si azzecca”. Sono convinto che sia importante pensar bene degli interlocutori e anche degli avversari, naturalmente sino a prova contraria. E so che nella rubrica del 22 febbraio 2020 neppure una virgola autorizza a mettere nella penna e nelle metaforiche fauci di “Lupus in pagina” (ovvero Gianni Gennari) l’espressione “ritardati mentali” rivolta a chicchessia. Basta rileggere... Secondo. Il Concordato del 1929 non è un «privilegio » ma una riconciliazione, è una pace. E la saggia revisione di quei Patti giunta a maturazione nel 1984 è frutto anche e soprattutto del Concilio Vaticano II, non il suo contrario.
È il chiaro esempio di quella «sana collaborazione» ( Gaudium et spes, 76) tra Stato e Chiesa nella rispettiva «indipendenza» e «autonomia » che viene giustamente auspicata – e non certo esecrata! – dai Padri conciliari e che sta a cuore a ogni persona impegnata per il bene comune e capace di concepire una laicità positiva e inclusiva. Rileggere anche solo l’ultimo articolo dedicato l’11 febbraio scorso al tema da Carlo Cardia aiuta a cogliere l’importanza del metodo e dei contenuti di quell’accordo tra Italia e Santa Sede e la fecondità – torno a ripeterlo – di un esempio che altrove è stato fonte di ispirazione e motivo di sprone per intese e impegni analoghi. Quanto all’8 per mille, rimando alla riposta data a un nostro lettore venerdì 21 febbraio, il giorno prima della rapida notazione di Gennari nella sua rubrica.
Aggiungo soltanto che trovo grave affermare una cosa assolutamente non vera come quella per cui la sola Chiesa cattolica italiana parteciperebbe con lo Stato alla suddivisione dell’intero ammontare dell’8 per mille, perché in proporzione (proprio come in un’elezione) alle scelte espresse a questa suddivisione partecipano anche altre dieci realtà religiose (mentre due si sono auto– escluse). Anche qui non c’è nessun “privilegio” per la Chiesa cattolica italiana se non quello di essere liberamente “votata” a ogni dichiarazione dei redditi da tantissimi concittadini. Terzo. I cappellani militari sono figure di sacerdoti al servizio degli uomini e delle donne in divisa, cioè di coloro che, secondo il Concilio (Gs, 79), possono essere considerati «ministri della sicurezza e della libertà dei popoli» e «se adempiono il loro dovere rettamente, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace» La Chiesa – sposa di Cristo, principe della pace, e madre e maestra – è molto chiara in proposito. Papa Francesco, il 26 ottobre 2015, ha ricordato che i militari e le loro famiglie «richiedono un’attenzione pastorale specifica, una sollecitudine che faccia sentire loro la vicinanza materna della Chiesa». Nella comunità cristiana italiana si dibatte da tempo, con profondità e anche con animazione sul servizio dei “preti con le stellette”. Io sto con il Papa che dice: «Come cristiani, restiamo profondamente convinti che lo scopo ultimo, il più degno della persona e della comunità umana, è l’abolizione della guerra».
E rivolgendosi direttamente ai cappellani aggiunge: «In questo periodo, nel quale stiamo vivendo una “terza guerra mondiale a pezzi”, voi siete chiamati ad alimentare nei militari e nelle loro famiglie la dimensione spirituale ed etica, che li aiuti ad affrontare le difficoltà e gli interrogativi spesso laceranti insiti in questo peculiare servizio alla Patria e all’umanità». Sto convintamente con il Papa, in ascolto di un magistero pontificio che ha illuminato tutto il Novecento e questo inizio di secolo. Ma sono anche felice di essere cittadino di una Repubblica che ha incardinato lo sviluppo della nostra società nazionale e della nostra democrazia anche sul «ripudio» della guerra (art. 11 della Costituzione) e il cui Parlamento sta per esaminare un ddl che riformerà le modalità – sempre perfettibili – del servizio dei cappellani militari.
Ed ecco l’ultima considerazione: in un tempo in s’inclina alle maledizioni, non diciamo mai che è «ipocrisia anti–evangelica» benedire. Soprattutto non diciamolo agli uomini e alle donne italiani che vestono con disciplina e onore una divisa affrontando sfide, fatiche e contraddizioni che solo saldi princìpi cristiani e civili aiutano a comporre secondo giustizia e amore. C’è tanto da seminare. Serve l’estre-mismo della pazienza e della speranza, papa Francesco direbbe della tenerezza. E bisogna far convergere le diverse strade per cui si va al comune lavoro, non allontanarle irrimediabilmente. Ricambio il francescano pace e bene.