Opinioni

20 anni dopo. Bosnia, la riconciliazione che manca

di Antonio Gregolin sabato 2 aprile 2016
Resta una sfida civile e religiosa quella di usare la «compassione come strumento storico di riconciliazione nazionale» in un Paese come la Bosnia che, a vent’anni dal conflitto etnico, porta ancora evidenti cicatrici sociali e fermenti politici estremi. Cicatrici che facilmente si riaprono, come è successo giovedì con l’assoluzione all’Aja dell’ultranazionalista serbo Seselj, accusato di crimini contro l’umanità per la sua propaganda a favore della pulizia etnica. Che peso possono avere, quindi, le parole 'riconciliazione' e 'compassione' per chi la guerra l’ha sperimentata sulla propria pelle, in una terra dove «era quasi preferibile vivere in guerra, ma con delle speranze, che vivere in pace come oggi, senza speranza»? Quanto può incidere il principio di 'perdono e misericordia', laddove la violenza ha segnato la storia di tre 'popoli', di tre identità: serbi, musulmani e cattolici? Risposte a una questione complessa e frammentata come quella della Bosnia dei nostri giorni, che resta una spina nel fianco dell’Europa contemporanea con problematiche legate al fondamentalismo e alla questione serba, arrivano dall’analisi del vescovo ausiliare di Sarajevo, monsignor Pero Sudar. Oggi sessantaquattrenne, testimone diretto dell’assedio di Sarajevo, ricevette la nomina da Giovanni Paolo II nel mezzo del conflitto, diventando poi presidente della Commissione Giustizia e Pace bosniaca, nonché promotore delle scuole interetniche, le scuole per l’Europa. Figura eminente del dialogo interreligioso all’interno della Bosnia, Sudar è stato nei giorni scorsi a Vicenza, dove ha tenuto una serie di conferenze sul tema 'Riconciliazione e misericordia', ospite dell’Associazione Presenza Donna della Congregazione delle suore Orsoline. U n’analisi asciutta e cristallina quella del vescovo, che non si sottrae rispetto alle responsabilità dei cattolici come degli ortodossi serbi e dei musulmani, che si sono fronteggiati a lungo nel conflitto: «Possiamo dire che in Bosnia non ci sono innocenti, ma tutti siamo responsabili». Si tratta di un giudizio coraggioso che gli stessi studiosi faticano a dare un ventennio dopo i fatti: «Sono cosciente della difficoltà che il perdonare comporta – ha sottolineato Sudar durante gli affollati incontri vicentini – e umanamente comprendo che perdonare sia un esercizio quasi impossibile. Ma so che non possiamo vivere senza perdonare. Psicologicamente lo facciamo tutti e di continuo, riconciliandosi con noi stessi e poi con gli altri. È una grazia 'naturale' che ci viene donata anche in virtù della stessa sopravvivenza umana». Sopravvivenza che oggi è per molti una regola imposta ed ereditata dalla guerra stessa, in una Bosnia dove tutto è cambiato e nulla sembra cambiare: «Ecco perché –sottolinea Sudar – credo che oggi al mio Paese serva una 'purificazione' della memoria nazionale». 'Purificazione' che potrebbe evocare lo spettro dello scontro etnico che portò alla guerra civile dal ’92 al ’95. Ma Sudar spiega così la sua personale visione delle cose: «Da vent’anni restiamo prigionieri di una logica che considera il perdono come una debolezza. Di più, una vergogna. Ecco allora che, per superare questa fossilizzazione storica e sociale in cui versa la Bosnia attuale, può tornare utile un altro elemento: la compassione. Quella stessa che vidi in abbondanza durante la guerra, quando vivendo l’assedio di Sarajevo ho sperimentato tanto bene umano. Al punto che, paradossalmente, mi capita di avere 'nostalgia' della guerra, se penso a quello slancio benefico che si opponeva al tanto male imposto. Credo però che nella Bosnia moderna, nonostante le tante e troppe tentazioni interne ed esterne che inducono a non 'perdonare', ostacolando così il processo verso il reciproco riconoscimento dell’altro e della sua diversità, vi siano molte persone che silenziosamente seminano perdono e compassione, senza per questo fare notizia». È l’'altra' Bosnia, quella di cui parla il vescovo di Sarajevo, quella della quotidianità e della convivenza, dei segni di speranza che s’interpongono al dolore e al rancore imposti con i trattati politici giunti a frammentare questa terra dove, già nell’immediata caduta dell’ex-Jugoslavia, un referendum popolare tra i croatomusulmani aveva visto vincere l’unità nazionale, pur nella diversità delle etnie che la abitano. Sembrava allora una possibile realtà, che si è ben presto trasformata in guerra e poi in utopia, infine resa 'stagnazione' fino ai nostri giorni dai trattati di Dayton del 1995, con cui si decise la divisione in due macro aree, quella serba e quella croatomusulmana. «La Bosnia sancita dai trattati non è certo quella dei popoli – spiega Sudar –, e sa molto di politica e poco di giustizia, con la frammentazione dell’unità nazionale e l’assegnazione ai serbi del 49% del territorio (oggi Repubblica Srpska)». Quella che sembrò al mondo intero la soluzione di un conflitto diventò nella pratica un nuovo capitolo di una guerra non combattuta con le armi, ma con la diffidenza e le separazioni. L’Europa di ieri, però, non è la stessa di oggi: nuovi rappresentanti, nuovi equilibri e, soprattutto, nuove tensioni. «C iò che sembra essere rimasto uguale – sottolinea Sudar – è un principio che l’Europa ha spesso manifestato. Ossia, quello del contare qualcosa 'solo se produci e sei efficiente'. Un’Europa in cui le minoranze non valgono per il loro patrimonio culturale, bensì per il loro peso economico: «Ecco perché per la povera Bosnia non vedo nessun passo in avanti, sia economicamente sia politicamente. Tanto da indurmi nella tentazione di pensare che tutto questo sia voluto e mantenuto da una strategia globale». La modernità di Sarajevo risorta dalle sue ceneri, che impressiona ogni visitatore, non ha riscontri nella realtà generale della Bosnia dei tre 'popoli'. Ciò anche perché la guerra ha spostato il 63% degli abitanti, circa 2 milioni e 680mila persone, impedendone il ritorno e negando di fatto un diritto fondamentale di ciascuno: quello alla casa e al patrimonio familiare. Molti osservatori e storici non parlano esplicitamente di 'errore Bosnia' da parte della comunità internazionale, bensì di complicità: «La soluzione politica che portò a fermare la guerra nel ’95 – aggiunge Sudar – non permise la sua conclusione in una forma che oserei dire 'naturale', visto che sarebbero bastate poche settimane dopo l’intervento della Nato perché le forze bosniaco-croate arrivassero a Banja Luka (capitale ideologica e logistica dell’esercito serbo). I bombardamenti Nato impedirono invece questo esito, creando i presupposti per fare continuare il conflitto in maniera subdola e sotto altre forme». S tando all’analisi del vescovo di Sarajevo, quella che allora si impose come soluzione politica-umanitaria è pure la cagione di quel rigurgito che induce oggi il 67% dei giovani bosniaci a dichiarare di voler abbandonare ad ogni costo la propria terra. «Non scordiamoci che più di due milioni di bosniaci da vent’anni sono e restano profughi dimenticati, alle porte d’Europa». «Credo che per sanare la questione resti valida la soluzione di una Bosnia unificata – dice Sudar –, utilizzando magari quel modello che offrimmo come Commissione Giustizia e Pace, in cui s’invocava l’istituzione di quattro regioni, non secondo il principio etnico, ma economico, rispettando i diritti e valori di tutti tre i popoli». «La spartizione del potere dentro e fuori la Bosnia – conclude Sudar – è la causa di quella latente diffidenza verso la Ue, specialmente da parte del popolo serbo come pure del mondo islamico, che si respira nella nostra società. La Chiesa serba accusa i cattolici di essere complici della deriva dei valori europei. Ci sarà probabilmente un referendum nazionale con cui si chiederà alla popolazione bosniaca l’adesione alla Ue. Un sì, tutto sommato, potrebbe servire a relativizzare molte tensioni interne, tutt’altro che sopite. Tensioni che possono alimentare integralismi e persino il terrorismo nel cuore stesso dell’Europa». © RIPRODUZIONE RISERVATA Pero Sudar La modernità della rinata Sarajevo (a sinistra), in cui continuano a convivere i simboli delle diverse religioni, contrasta con la povertà delle zone rurali colpite dalla guerra e mai ripresesi del tutto. Le lapidi (sotto) ricordano l’enorme prezzo in vite pagato con il conflitto degli anni Novanta (foto: Gregolin)