Garantire i fragili. Fine vita, la prospettiva laica a difesa dell'umanità della cura
«Penso che non esista nessuna vita, per quanto degradata, deteriorata, svilita, immiserita sia, che non meriti rispetto e non debba essere difesa con zelo. Ho la debolezza di pensare che l’onore di una società consista nell’assumere, nel volere il pesante lusso che rappresenta per essa la cura degli incurabili, degli inutili, degli inabili». Questo pensiero del biologo-filosofo francese Jean Rostand, figlio dell’autore di Cyrano, è riportato da Michel Houellebecq in uno dei suoi numerosi Interventi pubblici raccolti nel volume da poco tradotto per La nave di Teseo. Il testo in questione, comparso anche due anni fa come prefazione a un pamphlet dal titolo Vincent Lambert, une mort exemplaire? (autore Emmanuel Hirsch, direttore del dipartimento di Etica medica all’Università di Paris-Sud), è un atto d’accusa con molti destinatari, e il caso vuole che sia stato pubblicato in italiano proprio in coincidenza con la Giornata nazionale e europea dei Risvegli, lo scorso 7 ottobre.
Della storia alla base di quel libro “Avvenire” si era ampiamente occupato a suo tempo. Vittima di un grave incidente stradale, entrato in stato vegetativo – come era stata qualificata la sua condizione dopo che i medici avevano escluso qualsiasi possibilità di ripresa – Vincent Lambert è stato al centro di una estenuante battaglia giudiziaria che ha coinvolto anche la Corte europea dei diritti dell’uomo e ha spaccato la sua famiglia, con i genitori risolutamente contrari alla sospensione delle cure mentre la moglie e i fratelli erano favorevoli. Un “feuilleton giuridico”, lo definisce Houellebecq. La vicenda si è conclusa l’11 luglio 2019 nel Centre Hospitalier Universitaire di Reims, in seguito alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione disposta dopo che la Cassazione aveva accolto il ricorso presentato dal governo francese contro la sentenza della Corte d’appello di Parigi che aveva ordinato la ripresa dei trattamenti. Vincent aveva 43 anni, da tempo il suo dramma umano era sommerso dal clamore mediatico e il suo destino personale era divenuto la posta di uno scontro tra opposte fazioni che ne avevano fatto l’occasione per affilare il proprio armamentario ideologico (viene in mente l’imperativo categorico, «agisci in modo da trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine e mai come semplice mezzo»: povero Kant…).
Houellebecq – grande scrittore abituato a vivisezionare ipocrisie e ambiguità della società contemporanea, uomo del dubbio non ascrivibile a nessuna Chiesa, contraddittoriamente ateo ma scosso dall’orrore di un mondo senza Dio – addita i punti dolenti della questione: le responsabilità dello Stato francese che, come già aveva scritto su “Le Monde”, sarebbe dovuto rimanere neutrale, e l’“accanimento omicida” del Chu di Reims, nonostante diverse unità terapeutiche fossero pronte a accogliere il paziente. Ma, al di là del caso particolare, le considerazioni dello scrittore assumono un valore più vasto, smascherando gli stereotipi e i malintesi che avviluppano il dibattito sul “fine vita”. A cominciare dal concetto di “fine vita”. Vincent Lambert – e come lui tanti altri che è superfluo ricordare; ma uno va citato, il giovanissimo Archie Battersbee, 12 anni, a cui i medici londinesi hanno “staccato la spina” lo scorso agosto contro le proteste disperate dei genitori – non era un malato “in fin di vita” e neppure un anziano che ha scelto di morire: si trovava in quella condizione a seguito di un trauma accidentale, e senza l’intervento dello Stato la sua vita sarebbe proseguita – probabilmente permanendo nel coma irreversibile, sebbene l’esperienza insegni che qualche eccezione all’irreversibilità si è pure data. In discussione non è dunque la scelta del suicidio assistito (non si tratta di un caso come quello del tetraplegico marchigiano divenuto noto nei mesi scorsi sotto il nome di Mario), né la bontà o meno del testamento biologico, a cui Vincent non aveva mai pensato: «Si lascia un testamento biologico quando si sta invecchiando, quando si è malati, e in prospettiva di una vicina agonia» osserva Houellebecq; «non quando si hanno trent’anni, e perché si rischia di avere un incidente stradale».
Invece si è deciso al posto suo. Perché? Il malato avrebbe espresso il desiderio di morire, avevano detto i medici fin dal 2013; ma come avrebbe potuto, visto che la sua clinicalmente acclarata condizione era tale da precludergli la possibilità di comunicare anche le sensazioni più elementari? Era oggetto di accanimento terapeutico? No, respirava naturalmente, senza bisogno di ricorrere alla tracheotomia, non era in preda di sofferenze indicibili e veniva nutrito con piccoli sacchetti (Peg) agevolmente maneggiabili anche in casa. E dunque? Ecco allora farsi strada la vecchia storia della “dignità”, che ipocritamente si chiama in causa quando, come nel caso di Vincent, è trascurata perfino la sollecitudine di una uscita all’aria aperta sulla sedia a rotelle, che grazie alla moltiplicazione degli stimoli sensoriali potrebbe favorire una minima ripresa delle facoltà neurologiche. Ma la dignità di un uomo può soltanto essere alterata da atti moralmente censurabili, non dal degrado delle sue condizioni di salute. E nessuno ha il diritto di decidere se la vita di un altro è “degna di essere vissuta”.
Apriamo una parentesi. È ormai passata la narrazione secondo la quale in certe condizioni vivere non sarebbe dignitoso. Si dice, si pensa così e tutti lo ripetono, in un rimbalzo di “si” impersonali che dissolvono ogni forma di interiorità e di giudizio autonomo nell’inautenticità di quella condizione di Verfallenheit (deiezione) in cui Heidegger ravvisava il modo di essere dell’uomo contemporaneo “gettato” nella quotidianità. Dunque si dice che la vita di un essere umano ridotto allo stato vegetativo non è dignitosa, che quello non è più un uomo, è un vegetale. E certo non è un bello spettacolo. Ma forse lo è un novantenne incontinente in Rsa, e però lucido e conscius sui, e forse anche più difficile da gestire? Eppure per lui non si parla (non ancora, almeno) di eutanasia e fine dignitosa.
Contro l’eutanasia («quando un Paese – una società, una civiltà – arriva a legalizzare l’eutanasia, ai miei occhi perde ogni diritto al rispetto») Houellebecq si è pronunciato a chiare lettere su “Le Figaro” nell’aprile dello scorso anno, alla vigilia di una seduta dell’Assemblée Nationale che avrebbe dovuto approvare l’apposita legge (votazione poi saltata per l’ostruzionismo dei gruppi conservatori, ma un paio di mesi fa il presidente Macron ha rilanciato il tema con la proposta di una consultazione pubblica). « Nessuno ha voglia di morire », scriveva allora. « In generale, si preferisce una vita indebolita a un’assenza totale di vita; perché si può ancora beneficiare di piccole gioie. La vita, in ogni modo, non è forse, e quasi per definizione, un processo di indebolimento?». E «anche nel caso in cui uno stato vegetativo fosse riconosciuto irreversibile con assoluta certezza», sottolinea lo scrittore nella prefazione al saggio di Hirsch, «ci resterebbe comunque il dovere di occuparci di questi malati, di assicurare loro le migliori condizioni di vita possibili»: come si premura di assicurare al padre, colpito da ictus, il protagonista del suo ultimo romanzo Annientare (La nave di Teseo). È degno di nota che una posizione simile sia stata espressa in Italia, in un’intervista del 2009 sul “Corriere della Sera”, da un altro non credente, il cantante (e medico) Enzo Jannacci, dichiaratamente schierato con il fronte progressista: « Non staccherei mai una spina e mai sospenderei l’alimentazione a un paziente: interrompere una vita è allucinante e bestiale».
Cercare di mantenerla, questa vita, senza accanimenti, garantendo per quanto possibile non una fine ma una prosecuzione dignitosa: si può fare, si deve fare, non è una questione di fede religiosa o politica. Nel suo testo di due anni fa Houellebecq parlava di oltre 1.500 persone, in Francia, in uno stato vegetativo simile a quello di Vincent Lambert – una stima probabilmente per difetto; in Italia si ipotizzano tra i 3.500 e i 4.000 casi. Prendersene cura ha un costo, ma un costo sopportabile da una società che ci tenga a rimanere anche una civiltà. Perché il rischio, lo step ulteriore, potrebbe essere quello indicato da Jean Rostand nel seguito del passo citato all’inizio: «Quando ci si abituerà a eliminare i mostri, le più piccole tare appariranno delle mostruosità... Dalla soppressione dell’orribile a quella dell’indesiderabile non c’è che un passo».