editoriale. La Promessa non ha padroni
La prima volta che compare la parola "mercato" nella Genesi (23,16) è nella compravendita di una tomba, caparra della Terra promessa. Il primo brano di terra di Canaan che diventa proprietà di Abramo è un campo che compra per seppellire sua moglie Sara. Dio gli aveva promesso la «proprietà» (ahuzzà: 17,8) della terra promessa, ma la sola terra che riesce ad avere in «proprietà» (ahuzzà: 23,4) è una tomba. Accade spesso a chi segue una voce e si mette sinceramente in cammino, che la terra promessa la si intravveda, la si abiti, ami, ma non diventi sua proprietà. Sara muore nella terra di Canaan, ma muore ancora da straniera e ospite. «Io sono uno straniero (ger) residente ospite (tosab) in mezzo a voi» (23,4), dirà Abramo quando inizierà la contrattazione con gli Ittiti per la terra dove seppellire sua moglie – su quella stessa terra, il campo e la caverna di Makpelàh, saranno seppelliti anche Isacco, Rebecca, Lea e Giacobbe. Questa prima proprietà sepolcrale ci dice allora molto della vocazione di Abramo, ma anche dell’avventura di chi cerca di seguire nella vita una voce, una chiamata: l’estraneità, il camminare su terre non proprie, la tenda mobile dell’arameo errante, sono parte essenziale della condizione di chi risponde, o cerca di farlo.
Se Sara e Abramo furono proprietari solo di una tomba, allora la terra promessa va abitata, amata, arricchita ma non posseduta. Questo racconto non ci dice solo l’importanza della sepoltura dei corpi in quella cultura (e in genere nell’antichità: si pensi al mito greco di Antigone); ci dice anche che attraversare terre promesse senza possederle è espressione alta di quella gratuità che è la natura più vera di ogni vocazione. Abramo acquistando la terra dagli Ittiti per la tomba di Sara trasforma quel territorio in un "luogo" che diventerà nel tempo luogo sacro; ma il messaggio più profondo racchiuso nella vicenda della tomba di Sara è quello di non fare delle proprietà e dei luoghi la terra promessa, che resta sempre di fronte a noi.
Molto interessante e rivelativo di tutta una cultura medio-orientale antica e delle sue prassi contrattuali (le cui tracce non sono del tutto scomparse nei suq di Damasco o di Teheran) è poi il processo di contrattazione tra Abramo e il proprietario del campo. Il prezzo di vendita emerge come un dettaglio quasi marginale all’interno di una conversazione nella quale si alternano offerte generose, lodi e riconoscimenti della dignità e dell’onore della controparte: «Ascolta noi, signore! Tu sei un principe potente in mezzo a noi: nel migliore dei nostri sepolcri seppellisci il tuo morto» (23,6). E Abramo replica: «Se è vostro desiderio che io seppellisca il mio morto... insistete per me presso Ephròn, figlio di Sohàr, perché mi dia la caverna di Makpelàh ... me la dia a prezzo intero» (23, 8-9). Ephròn sembra essere disposto a donargli il terreno anche gratuitamente: «No signore mio! Ascolta me: ti do il campo e ti do la caverna e la caverna che vi si trova. Davanti ai figli del mio popolo te la do» (23,11).
Allora Abramo «si inchinò davanti al popolo», e disse: «Ti prego: ascoltami! Io ti do il prezzo del campo: accettalo da me»(23,13). Solo a questo punto del dialogo compare il prezzo: «Ascolta me, signore mio: un terreno di quattrocento sicli di argento cos’è tra me e te?» (23,15). Abramo pesò i quattrocento «sicli dell’argento corrente sul mercato» (23,16), e così «il campo e la caverna che era in esso passarono in proprietà dai figli di Het ad Abramo» (23,20) – un siclo (shekel) era una misura di peso, circa 11 grammi. Un prezzo elevato, se confrontato con il prezzo pagato da Geremia per un campo (17 sicli d’argento: Ger 32,9), o con le trenta monete di argento pagate per il tradimento di Giuda (che potevano essere denari romani [3,9 grammi] ma anche sicli, molto più usati a Gerusalemme in quel periodo).
Questo dialogo "economico" tra Abramo e Ephròn, pur nella sua complessità di simboli, molti dei quali ormai troppo distanti da noi, ci dice anche che gli scambi economici sono incontri tra persone, e sono incontri autenticamente umani quando non li priviamo di tutte le dimensioni dell’umano, in particolare della parola. «La prima merce che si scambia al mercato è la parola», mi disse un giorno un mio amico africano, una terra dove ancora esistono e resistono mercati non occupati dalla logica del nostro capitalismo individualistico-finanziario che sta trasformando il mondo in un ipermercato senza persone, senza incontri, senza parole, senza onore e riconoscimento del volto dell’altro. Si devono "onorare" i debiti, ma prima nei mercati si possono e si devono onorare le persone, altrimenti la vita economica si intristisce, e noi con essa. Ma quell’antico incontro commerciale ci dice anche che un contratto, con pagamento del «prezzo pieno», può essere – e normalmente è – uno strumento più idoneo del dono per ottenere cose importanti da altri con i quali non siamo già in un rapporto di doni reciproci. Il dono è buono ed è relazionalmente e moralmente superiore ai contratti solo se esistono buone ragioni per offrirlo e per riceverlo, come ci ricorda anche Isaia: «Chi cammina nella giustizia e parla con lealtà, chi rigetta un guadagno frutto di angherie, scuote le mani per non accettare regali» (33,15). I doni senza buone ragioni per la gratuità sono i «regali» di cui parla Isaia, cioè regalìe, i doni senza gratuità del re-faraone.
Il mondo è pieno, dall’azzardo allo sfruttamento della terra, di guadagni «frutto di angherie» che diventano poi «regali», che il non-profit non dovrebbe accettare e «scuotere le mani» – mani invece ancora "scosse" troppo raramente. Un contratto può essere allora un buon strumento persino per acquistare il primo lembo-caparra di terra promessa, per seppellire degnamente una moglie. Le esperienze economiche e sociali più innovative e amiche dei poveri che abbiamo generato lungo la nostra storia sono sempre state e sono un intreccio di doni e di contratti, di gratuità e di doveroso, di regole monastiche e grazia, obblighi e libertà, contratti che servono i doni e doni che servono i contratti.Ma la Genesi ci suggerisce anche che il contratto, come il dono, è profondamente ambivalente (non dimentichiamo che l’ambivalenza è una chiave di lettura indispensabile per penetrare nei testi biblici, e nella vita). Tre capitoli dopo (26, 29-34), infatti, scopriamo che il secondo "contratto" di compravendita della Genesi è quello attraverso il quale Giacobbe acquista da Esau la primogenitura in cambio di un «piatto di lenticchie». Anche nella compravendita lenticchie-primogenitura il contratto è considerato legittimo dalla Bibbia (la primogenitura non tornerà a Esaù), ma qui c’è una esplicita condanna morale per un prezzo troppo basso: «Fu così che Esaù disprezzò la primogenitura» (26, 34). Abramo aveva apprezzato il campo nel quale avrebbe sepolto la sua sposa, e pagò un prezzo alto; Esaù, accontentandosi di troppo poco, aveva detto quanto poco considerasse il suo status. I prezzi dovrebbero indicare valori, e quando non lo fanno sono prezzi sbagliati, ieri e oggi.
Il mondo ha sempre sofferto per prezzi troppo alti che hanno escluso dal possesso di beni importanti moltitudini di poveri. Ma il nostro capitalismo oggi soffre anche per prezzi troppo bassi: materie prime o cibo scambiati a un prezzo minore del valore di un «piatto di lenticchie», prezzi che non dicono valore né valori perché frutto di speculazioni e di visioni egoiste e miopi che non includono nei calcoli l’uso futuro di quelle risorse da parte dei nostri figli e nipoti, un futuro che il nostro capitalismo valuta meno di «un piatto di lenticchie». Al termine della stupenda avventura di Abramo, il padre di tutti – una storia che rivivendola mi ha molto amato – l’ultima parola deve andare ai tanti che, emigranti come Abramo e Sara, sono morti e muoiono in terra straniera senza però avere i "sicli" per comprare una tomba per le loro spose. Abramo comprò la tomba di Makpelàh anche per loro, caparra di una terra senza padroni, la terra promessa.l.bruni@lumsa.it