Opinioni

I doveri dello Stato, la vicenda dell’«Affruntata». Quando il divieto. È segno di debolezza

Roberto Pennisi - Consigliere della Procura nazionale Antimafia venerdì 25 aprile 2014
«Peccato», ha esclamato, con un misto di dolore e stupore, la vecchietta del paesino del Vibonese nell’apprendere che quest’anno i riti pasquali non avrebbero compreso “L’Affruntata”; che il popolo non avrebbe assistito allo sciogliersi del nero velo che ricopre Maria alla vista del Figlio restituito alla vita nella gloria della Resurrezione. «Peccato», e le rughe che solcano il suo viso sono diventati crepacci che siglano la sua rassegnazione. E il suo pensiero, forse, corre al suo sposo ristretto dalla paralisi della vecchiaia del contadino nella sua umile casetta. Forse del tutto simile al fiero Paparatto, con le sue ossa contorte dal secolare lavoro nei campi, simbolo della resistenza alla mafia della povera, ma non per questo meno degna, gente di Calabria. Che si oppone alla prepotenza della ‘ndrangheta anche a costo di vedersi distruggere la vigna dalla valanga di massi fattigli piovere dagli uomini del casato mafioso di Limbadi che avevano messo la loro forza a disposizione degli accordi politico–mafiosi del quinto centro siderurgico e del Porto di Gioia Tauro.«Se non riusciremo in questo, avremo il popolo contro, e per noi sarà la fine….», dice il potente uomo della ‘ndrangheta di San Luca al potente uomo della ‘ndrangheta di Reggio Calabria cui si rivolge per chiedere aiuto al fine di riportare la “pace” nel cuore dell’Aspromonte sconvolto da una decennale faida. Ecco pronunziata la frase magica che è la chiave della risoluzione del problema: il consenso del popolo. Quello che, come correttamente affermato in Commissione Antimafia da un magistrato calabrese che la ‘ndrangheta la conosce veramente, costituisce la vera forza del crimine organizzato di marca mafiosa, di quello calabrese come di quello siciliano. Un crimine che sa che senza l’appoggio della collettività in cui è inserito, comunque conquistato e conservato, le sue organizzazioni si trasformerebbero in comuni bande di delinquenti, facilmente neutralizzabili in poche battute.Sicché la azione anticrimine della Repubblica, quella seria e non di facciata, ha semplicemente e principalmente il compito, anzi il dovere, di conquistare nel cuore del popolo quegli spazi abusivamente invasi dal crimine organizzato, sostituendo al malinteso onore dei mafiosi, che onore non è, quello – questo sì vero – del diritto che si fonda sulla legge dello Stato. E lo Stato deve far comprendere che è più forte della ‘ndrangheta, ed è in condizioni di garantire ciò che spetta, non perché è un favore, ma un diritto, appunto. Che i suoi uomini, siano essi funzionari, impiegati, magistrati o rappresentanti eletti, sono in mezzo alla gente non per prendere o togliere, ma per dare. Non per conquistarsi pubblicità e potere prodromici o funzionali a vantaggi, anche legittimi se vogliamo, ma tali da offuscare il senso di una missione, bensì per servire umilmente e fermamente la collettività per la cura dei cui interessi hanno giurato fedeltà alla Repubblica. Rispettando il valore profondo della giustizia perseguendo le illegalità reali, e non quelle ipotizzate sulla base di teoremi rispondenti a logiche spesso inconfessabili, senza pontificare rimanendo arroccati nei loro palazzi, e uscendone solo per raggiungerne altri dove sedere accanto a potenti la cui storia si fonde e confonde con quella del crimine che soggioga il territorio. Dimentichi del fatto che il popolo, anche se silenzioso, sa, comprende e giudica. E ama chi lo merita.E anche una processione pasquale, allora, dovrà essere intesa come un diritto, e non come un favore: sì, una processione più di un contributo o una pensione, perché attiene a quella sfera intima che riguarda l’unica cosa veramente nostra: i nostri pensieri.Non si dubita che l’autorità di governo che ha vietato la manifestazione religiosa nel Vibonese lo abbia fatto sussistendone tutti i presupposti, e nel pieno rispetto delle regole. Ma non è con questo tipo di divieti che lo Stato segna punti a proprio favore nella lotta contro il crimine. Essi, piuttosto, sono manifestazione di debolezza, una sorta di fuga; come dire che non si è in condizioni di sottrarre al nemico gli spazi, anche quelli di natura ideale, che da tempo abusivamente occupa. E, quindi: annullati per decreto. Quando, invece, la forza della legge deve essere in condizioni di garantire lo svolgimento di quel tipo di riti, sottraendoli al dominio della ‘ndrangheta e restituendoli al popolo che ne è stato depredato. E, perché no, facendone nobile strumento per riaffermare la legalità. E così pure la Chiesa, trattandosi di un ambito di sua spettanza, utilizzandoli per far comprendere che fede e ‘ndrangheta sono due realtà antinomiche, costituenti l’una la negazione dell’altra. Quella Chiesa cui non difettano in materia fulgidi simboli e parole e gesti appropriati e forti.Sarà meraviglioso, a tal punto, immaginare e, anzi, vedere il velo funereo che cade e l’espressione di Maria che si schiude nel dolce sorriso alla vista del Risorto accanto al quale procedono Peppe Diana e Pino Puglisi. «Che bello!» dirà la vecchietta del paesino del Vibonese.