Opinioni

Mai solo parole, ma conversione e atteggiamento del cuore. La preghiera secondo Francesco (Quella straordinaria mite promessa)

Marina Corradi martedì 22 ottobre 2013

​È come un centro, attorno al quale le parole del Papa continuano a gravitare. Questo centro è la parola "preghiera". Ovvio, si dirà, la preghiera è fondante per un cristiano. Ma è come se in tanti invece vivessimo, quanto a questo, dentro a una nuvola di oblio. Chi è cristiano fin da bambino rischia di dimenticarsi lo stupore di un pregare che con l’abitudine si è come ingrigito. Chi è tornato indietro da altri mondi, atei, materialisti o semplicemente distratti, può non trovare affatto così semplice l’affidarsi a un invisibile Altro, in cui pure spera.

Insomma, è un bel salto, per quanti vivono nel tacito positivismo che ammette solo ciò che si può misurare, concepire di dare del "tu" all’Infinito. (Un salto tale da parere assurdo, se non folle: il cambiamento radicale in una conversione non è certo nell’adeguarsi a dei precetti morali, ma nel riconoscersi non autosufficienti, e invece figli, e invece creature. E dunque, creature, rivolgersi al Padre). O, ancora, per alcuni pregare significa semplicemente domandare per sé, e quasi spiegare a Dio come deve avverare i propri personali progetti; inclinando però rapidamente verso la sfiducia e l’amarezza, se non si viene accontentati.

Come ben conoscendo questa nuvola di smemoratezza e di fatica, il Papa torna sulla questione della preghiera con insistenza. «L’evangelizzazione si fa in ginocchio», ha detto quest’estate, e recentemente ha preso spunto dal Vangelo in cui Marta rimprovera la sorella Maria perché non l’aiuta a servire Gesù, per lodare quella Maria che guardava Cristo «come una bambina meravigliata». E ripete, Francesco, come pregare non sia questione di parole, ma un atteggiamento del cuore. Un rivolgersi a questo Tu che sfugge ai nostri sensi, con la piena certezza con cui parleremmo a un padre carnale; avendo l’audacia di fare il grande passo oltre ciò che è fisicamente percepibile, matematicamente dimostrabile, eppure da sempre "è", e ci conosce e ci aspetta.

Ma anche chi ha il coraggio di un tale abbandono può, nel dolore e nella fatica quotidiana, perdersi, e arrivare a pensare che troppo intricati sono certi nodi, perché perfino Dio li possa sciogliere; e continuare quindi a pregare in una forma vuota, coltivando in sé una beneducata disperazione. Le parole di una recente omelia in Santa Marta sono illuminanti in questo senso: «La preghiera, è aprire la porta al Signore, perché venga. (…) Pregare è questo: aprire le porta al Signore, perché possa fare qualcosa. Ma se noi chiudiamo la porta, Lui non può fare nulla».

E certo per chi è nato e cresciuto cristiano è cosa ovvia, ma per quanti sono stati dimentichi o lontani è così limpida, questa spiegazione: pregare, è come schiudere una porta rimasta a lungo sbarrata, premere sul battente per forzare i cardini arrugginiti e cigolanti. Lasciare entrare l’Altro nello spazio angusto, nell’aria viziata di un Io orgoglioso e barricato in sé. Semplicemente, schiudere quella porta tanto gelosamente presidiata dalla cultura della autosufficienza e dell’autodeterminazione, del nostro tempo il vero idolo.

Ma, cosa accadrà una volta che con coraggio e insieme paura si osi lasciare uno spiraglio a Dio? Forse non soffriremo più, o saremo guariti, o non sarà anche maledettamente faticoso, oltre che bello, lavorare, volere bene al marito o alla moglie, crescere i figli?

No, non c’è affatto questa promessa nelle parole del Papa. C’è però una breve frase pronunciata giorni fa, a proposito della fede di Maria. Imitando quella fede, ha detto Francesco, «Succede come se Dio prendesse carne in noi».

Che straordinaria eppure mite promessa: Dio che prende carne in noi, che in noi si fa tetto per i profughi, compagnia per i soli, speranza per i disperati. «È una cosa – ha aggiunto il Papa – difficile da capire, ma facile da constatare col cuore».

Saper pregare, deve essere proprio una faccenda di abbandono fiducioso e totale. Come Benedetto XVI nel 2010 davanti alla Sindone, nel Duomo di Torino – in ginocchio, assorto, rapito. O come un uomo che ogni sera, stanco, gravato da mille pesi, in una stanza vaticana si inginocchia, e perfino talvolta, sfinito, si addormenta; ma non importa, tanto certo è che resta, accanto, l’Altro, a vegliare.