Trento capitale del volontariato. La piramide rovesciata
La cerimonia che ha aperto l’anno di “Trento capitale europea del volontariato”, con la presenza e le parole - al solito bellissime - del presidente Sergio Mattarella, non può che riempire di orgoglio tutti noi trentini e italiani. Ma, al tempo stesso, deve farci capire le nostre grandi responsabilità. Cosa è, in fin dei conti, il volontariato? È certo la propensione personale a donare parte del proprio tempo ad un fine di bene comune: attitudine, questa, già di per sé straordinaria in un tempo connotato da crescente individualismo. Vi è però una seconda dimensione del volontariato che può avere una marcia in più, perché va oltre la pur importante sfera personale: ed è questo il messaggio che vorrei potesse partire da Trento.
Il volontariato che può cambiare veramente le cose è collettivo, organizzato, formato. È “collettivo”, perché la solidarietà condivisa crea effetti moltiplicatori sia materiali che sociali. È “organizzato”, perché le “buone azioni” dei singoli non riescono spesso a intercettare i veri bisogni e a corrispondervi in maniera tale da rimuoverne almeno in parte le cause. È “formato”, perché non basta ormai il pur fondamentale “buon cuore”: occorre la competenza, anche nelle azioni di volontariato. Faccio solo un esempio. Da noi vive ancora questa regola: è obbligatorio che in ogni Comune ci sia un Corpo di Vigili del fuoco volontari.
Qualcuno può dire: è un ossimoro, come si può prevedere l’obbligo di una azione volontaria? No. È invece una cultura, in base alla quale tra il “pubblico” e il “privato” non c’è il vuoto. C’è il diritto-dovere delle comunità di auto-organizzarsi per far fronte alle esigenze primarie del bene comune.
Il vero volontariato non è qualcosa che si fa perché le strutture pubbliche non danno risposte: si fa perché è giusto farlo ed è bello farlo “dal basso”, dalla comunità. È la piramide rovesciata: prima la comunità e dopo le Istituzioni pubbliche, col loro ruolo ovviamente essenziale. A ben vedere, al di là della peculiare storia del Trentino e della sua speciale autonomia (oggi, peraltro, anch’essa alle prese con i cambiamenti epocali e con le loro derive) questa è la vera radice di una democrazia capace di cifra comunitaria. La riflessione vale per il volontariato come per le tante esperienze del “privato sociale” (per citare il grande Achille Ardigò) o per le realtà del Terzo settore.
Nel tempo della crisi della democrazia e del suo stesso carisma presso il popolo, questa prospettiva di ritorno alla responsabilità dei singoli, delle reti intermedie e delle comunità locali appare l’unica vera alternativa alla deriva post democratica; alle lusinghe del populismo che promette dall’alto il soddisfacimento dei bisogni individualistici; ai rischi che derivano dalla conseguente disponibilità di molti a barattare la libertà e la responsabilità con la presunta sicurezza garantita da un potere sempre più lontano e sempre più “solo al comando”. Così inteso, il volontariato non è solo, appunto, “buon cuore”: è anche “buona democrazia”. È, in fin dei conti, anche laboratorio di “buona politica”. Ed è anche una delle vie per costruire ciò che papa Francesco definisce spesso come “nuovo umanesimo”.