Ucraina. La pietà del Papa per le vittime e la resa politica alla guerra
A Dio piacendo, è presto rientrata la mezza crisi diplomatica tra Santa Sede e governo ucraino che non ha gradito le parole di Francesco a proposito dell’attentato, di incerta matrice, che ha causato la morte della giovane figlia di Aleksandr Dugin, ideologo legato a Putin.
Una messa a punto della Santa Sede ha precisato ciò che era già chiaro: quella del Papa è una preghiera e una sollecitudine per la vita umana, non una presa di posizione politica. Qualcosa di simile già successe al tempo della Via Crucis pasquale presieduta dal Papa che vide pregare insieme due donne, una ucraina, l’altra russa.
Prima di quel segno, ispirato a umana e cristiana pietà, Francesco si era espresso così: «Invito a implorare dal Signore la pace per l’amato popolo ucraino che da sei mesi a oggi patisce l’orrore della guerra». Mi domando: possibile che la guerra si sia impadronita a tal punto degli animi da eccepire su parole ispirate a pietà per le sue vittime di ogni parte? Possibile che ci sia spinti al limite di inibire o comunque di fraintendere il peculiare punto di vista del Pontefice? Possibile che da lui si pretenda, persino più algido, il bilancino della diplomazia? Non è cosa nuova, è dall’avvio di questa sciagurata guerra che si muovono a Francesco accuse a tutti gli effetti fuori luogo.
Nonostante egli, più e più volte, si sia mostrato perfettamente consapevole della decisiva distinzione tra aggressore e aggredito. Chi lo insinua offende la sua e la nostra intelligenza. Il che non impedisce a Francesco, in fedeltà al Vangelo, di pronunciare parole chiare, giudizi netti e certo controcorrente rispetto al linguaggio e alla cultura bellicista che si sono impadroniti di molti tra noi. Tipo: che la guerra è una follia, che il commercio delle armi è criminogeno, che la pace passa attraverso il dialogo e persino il perdono.
Nonché di porsi dalla parte delle vittime innocenti di tutte le parti in conflitto: morti, feriti, rifugiati, bambini, giovani militari a loro volta vittime di chi la guerra l’ha decretata. Ripeto: è un segno (gramo) dei tempi sia che si misconosca il diritto-dovere del Papa a proferire parole coerenti con il suo ministero e dettategli dal Vangelo di Gesù, sia che non se ne apprezzi il valore anche etico-pratico proprio in quanto controcorrente.
A ben vedere, lo fanno pochi altri, oltre a lui, nel frastuono e nell’agitazione inconcludente di una comunità internazionale quasi rassegnata a una guerra senza fine. Le parole di Francesco mi hanno ricordato un intervento del cardinal Martini datato 2002, che ebbe vasta eco, mentre infuriava il conflitto arabo-israeliano. Martini evocò il tema dell’intercessione tra le parti in conflitto. Andrebbe riletto, quel discorso.
Solo un brano: «Certo noi vorremmo che finisse il conflitto, che non ci fosse. Dovremmo però avere il coraggio di buttarcisi dentro come intercessori, passando in mezzo e pregando per gli uni e per gli altri, pregando per i carnefici e per le vittime». Icona dell’intercessione lo stesso Gesù con le sue braccia tese sulla Croce, disponibile a dare la vita, a farsi letteralmente dilaniare, per riconciliare gli uomini con Dio e gli uomini tra loro.
E concludeva: che prezzo siamo disposti a pagare noi personalmente, che ci professiamo cristiani, per conseguire il bene grande e difficile della pace? Non basta partecipare a pur generose manifestazioni pacifiste. Anche perché, secondo la dottrina cristiana del peccato, che non è un’anticaglia, si dà una nostra misteriosa ma effettiva partecipazione al male che abita il mondo, anche se noi non abbiamo nessun legame con Putin. Può una meditazione di questa profondità spirituale, come il cordoglio del Papa, essere scambiata per una 'politica' equidistanza tra le parti?