Passano i decenni, trascorrono gli anniversari (ultimo il recentissimo trentennale sui referendum in materia), si susseguono piccoli e grandi annunci di imminente azzeramento del problema – magari grazie a strabilianti "farmaci" contraccettivi d’emergenza presunti risolutivi e invece, nei fatti, altra faccia dello stesso dramma – eppure l’insostenibile pesantezza dell’aborto, nelle sua dimensione umana e sociale, non riesce a essere scalfita. Lo dimostra anche la relazione al Parlamento che annualmente, in base alla legge, fotografa lo stato del fenomeno dal versante delle minorenni e dei reati in violazione delle regole previste dalla stessa "194".Il documento curato dal ministero della Giustizia ha il merito di gettare uno sguardo d’assieme, e di lungo periodo, abbracciando l’arco di tempo tra il 2001 e oggi, sul persistente "dramma nel dramma" della clandestinità e soprattutto sulle interruzioni di gravidanza autorizzate dai Giudici Tutelari all’insaputa delle famiglie. Un testo che non si limita quindi a elencare fredde cifre, ma entra per quanto possibile nella valutazione delle cause e delle circostanze che, da ultimo nel 2010, hanno spinto 1.233 ragazze con meno di 18 anni (a volte anche con tre o più anni meno!) a optare per l’appello solitario a un tribunale civile, in cerca del nulla osta necessario al ricovero.Emerge così anzitutto l’ennesima smentita alle trionfalistiche previsioni di fine anni 70 del Novecento sull’eliminazione delle pratiche "in nero", grazie alla raggiunta «legalizzazione». La realtà si affaccia in modo eloquente dalle stime dei Procuratori della Repubblica, che pur senza azzardare numeri, parlano della clandestinità come di una modalità ancora «largamente» diffusa e praticata, specie ai danni di donne extra-comunitarie.Ma le pagine più istruttive della relazione sono quelle in cui si scandaglia più a fondo l’universo minorile coinvolto, si esaminano le motivazioni addotte per la scelta di abortire, si confrontano le concrete modalità di approccio seguite dai giudici per verificare che sussistano le condizioni richieste. Colpisce in particolare il diverso atteggiamento delle toghe chiamate in causa: si va da chi percepisce il proprio ruolo in chiave meramente notarile, di semplice presa d’atto di una pur acerba volontà purché espressa nelle forme sancite; a quanti invece provano, con la necessaria discrezione, a suggerire un minimo di riflessione supplementare, ad esempio sull’opportunità di coinvolgere uno o entrambi i genitori nella vicenda. Gli uni fautori di un’autodeterminazione portata all’estremo di escludere qualunque domanda suscettibile di revocare in dubbio la richiesta avanzata, gli altri non rassegnati a un gelido automatismo procedurale (per altro escluso dalla "194"), evidentemente nella consapevolezza che un passo del genere (l’attuazione del «triste proposito», secondo la dolente ma efficace definizione usata dai relatori di Via Arenula) produce conseguenze da valutare attentamente prima di compierlo.Ancora una volta si affaccia, insomma, lo spaccato di una società che affronta in maniera ambivalente e contraddittoria una delle sue manifestazioni più inquietanti. Da un lato l’ostinata volontà di rimozione, di dichiarare formalmente sciolto un nodo, che tuttavia continua inesorabilmente a stringersi attorno a decine e decina di migliaia di vite di donne, giovani e meno giovani: in almeno tre casi al giorno donne giovanissime, poco più che ragazzine. Dall’altro il non meno tenace desiderio di spendersi in qualche modo in favore della vita: non solo di chi, rifiutato, rischia di perderla prima ancora del suo sbocciare, ma anche della madre suo malgrado. Di una teenager, ricordiamolo, giudicata dallo Stato incapace di guidare un’automobile o di votare anche solo per il suo consiglio di quartiere, e tuttavia ritenuta in grado di pronunciare in perfetta solitudine una sentenza senza appello sul proprio e sull’altrui destino.Bisogna dire grazie ancora una volta a questi uomini e donne che, come ricordava appena lunedì scorso il presidente della Conferenza episcopale italiana, con la loro opera quotidiana contribuiscono a impedire che «l’opzione abortiva» diventi in questo Paese un fatto «normale». Nei cuori, prima ancora che negli ospedali e nei Palazzi di giustizia.