Opinioni

Il corpo e la parola/5. La persona, la vita e le esigenze dell'amore

Rosanna Virgili domenica 16 luglio 2023

Filippo e l'Eunuco: l'episodio degli Atti in una miniatura

"Amo in te / l'avventura della nave / che va verso il polo / amo in te / l'audacia dei giocatori / delle grandi scoperte / amo in te le cose lontane / amo in te l'impossibile". Nazim Hikmet

Mutar sembiante

Sembra scontato che il sesso sia sinonimo di corpo e che la persona vada a identificarsi col suo sesso secondo una legge naturale per cui in esso si stabilisce anche il genere – maschile e femminile – della persona. Questo statuto che sembra pacifico costituisce oggi, però, un motivo di accese discussioni tra coloro che ritengono separabile il sesso dal genere – che distinguono, cioè, tra sex e gender intendendo che una persona possa essere di sesso maschile e coltivare un genere femminile e viceversa – mentre c’è chi continua a difendere fermamente l’implicita identità di sesso e genere. Come direbbe, ironicamente, Marshall Sahlins: «Ci vuole molta cultura per creare uno stato di natura». Un argomento amato, però, anche nel passato e che ha ispirato miti, storie e leggende, creando personaggi spesso prodotto di fantasia, segno di un interesse che non ha mai smesso di intrigare la cultura occidentale. Uno dei nomi più famosi, a questo proposito, è certamente quello di Tiresia, celebre indovino dell’antichità, la cui figura è stata mille volte ripresa, riletta, applaudita o condannata. Essa appare in Omero, Sofocle, Euripide, Ovidio, via via per varie vulgate nei secoli, fino a posarsi su un commovente racconto di Andrea Camilleri da lui stesso mirabilmente interpretato nell’ultima performance della sua vita ( Conversazioni con Tiresia). Nella Commedia Dante cala Tiresia nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno dove Virgilio lo presenta come colui che «mutò sembiante/quando di maschio femmina divenne/ cangiandosi li membra tutte quante» ( Inferno XX 4045). Il mito è più innocente e spiega così la metamorfosi che subì Tiresia: da ragazzo, gli capitò di vedere due serpenti che si accoppiavano, allora egli uccise con un bastone la femmina ritrovandosi, immediatamente, femmina anche lui. E quando, poi, gli ricapitò la stessa scena ed egli uccise il serpente maschio (il vedovo!) lui stesso ritornò subito uomo. Tiresia non era, quindi, un ermafrodito, accusa che – secondo alcuni – nacque soltanto nel Medioevo da tal Guido da Pisa il quale gli attribuì un doppio sesso che avrebbe usato alternativamente. E fu per quest’inganno che fu coniato il verbo “tiresiare” per definire tutti i possibili mutamenti di genere negli atti sessuali. Casi come quello di Tiresia sarebbero “abominio” nella Bibbia, dove chiara è la norma: « La donna non si metterà un indumento da uomo né l’uomo indosserà una veste da donna» ( Dt 22,5). I due generi sono ben culturalmente costruiti e tenacemente difesi nel corpo del maschio e della femmina, proprio perché finalizzati allo statuto stesso del corpo che – nell’antropologia teologica biblica – è fatto per creare alleanza, per tendere all’altro, per l’esodo da sé, per una comunione feconda che si può compiere soltanto nel permanere della mancanza e della differenza.

«Può forse un maschio partorire?» (Ger 30,6)

Ma proprio in virtù di questa tensione tipica delle relazioni d’Amore si possono rinvenire, nella Bibbia, delle metaforiche forme di “tiresiare”: un maschio che pone dei comportamenti femminili; una femmina che fa delle esperienze tipicamente maschili, rispetto ai canoni di genere del tempo. Nel libro dei Numeri, ad esempio, si narra degli anni che Israele passò nel deserto. Stanchi di quella vita così sospesa, gli Israeliti piansero e dissero: «Chi ci darà carne da mangiare?». Allora Mosè disse al Signore: « Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi...? L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: “Portalo in grembo”, come la nutrice porta il lattante, fino al paese che tu hai promesso?” ( Nm 11,4.10-12). Mosè si paragona a una donna gestante che si lamenta con chi le ha fatto concepire un figlio di cui poi non si prende cura. Una metafora di grande efficacia con la quale si mostra la sensibilità del profeta che porta nel suo corpo la vita di un popolo migrante cui Dio ha promesso la libertà e la terra che, però, tardano ad arrivare. Straordinario è l’amore di Mosè per quel “figlio” che non è suo, ma di Dio, egli pronuncia parole così intense che paiono uscire dal cuore di una madre. La straordinarietà dell’amore provato da Mosè per Israele lo costringe a descrivere sé stesso al femminile, a stravolgere le tipicità del vissuto dei generi stessi. C’è un altro personaggio che colpisce ancor di più, poiché spesso considerato misogino: si tratta dell’apostolo Paolo. Egli scrive alle chiese esprimendo un ardore materno, un sentimento di dolore misto a passione, di travaglio misto a tenerezza, tipico di una madre mediterranea: «Figli miei ( tèkna mou) che ancora io vi partorisco finché in voi non abbia preso forma Cristo» ( Gal 4,19). Ancora una volta l’eccedenza d’amore scuote i confini del genere, delle membra del corpo, del linguaggio: Paolo che è celibe, senza moglie e senza figli, si rivolge ai Galati come farebbe una gestante nella lunga fatica di darli alla luce. Per farli nascere al Vangelo, alla salvezza, alla gioia, Paolo si è fatto davvero “tutto a tutti” (1 Cor 9,22) e il suo corpo è divenuto capace di parlare le lingue di ogni genere. Del resto, un atto simile al partorire appartiene anche al primo uomo di cui parla Genesi: fu dalla sua costola ( zela’: la parte sotto il cuore) che Dio estrasse la donna, in un gesto da ostetrico (cf Gen 2,21-22). Un’ermeneutica che usa lo stesso Paolo nella prima Lettera ai Corinti, a proposito di Adamo, quando dice: « E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo. (...) Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo né l’uomo è senza la donna. Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio» (1 Cor 11,8-9.11-12). Nella fedeltà alla scrittura Paolo conferma che la donna proviene dall’uomo, ma poi finisce col riconoscere che «l’uomo ha vita dalla donna», riferendosi alla concretezza del corpo femminile da dove tutti nascono, uomini e donne. I due generi, alla fine, vengono ambedue riconosciuti come fonte di vita, nel rapporto dell’uno con l’altro, poiché «tutto proviene da Dio». Un sacramento che si radicherà nel corpo di Gesù il quale “partorisce” la Chiesa dal suo costato crocifisso d’amore da cui «subito uscì sangue e acqua» ( Gv 19,34).

Eunuchi per il Regno dei cieli

La potenza dello Spirito trasforma il corpo. Non è, pertanto, un caso che il primo battezzato – non giudeo – della Chiesa nascente sia un sudanese, eunuco della regina Candace. C’è da dire che gli eunuchi, in Israele, non potevano neppure entrare nel Tempio a causa della gravità del loro difetto fisico. Il libro degli Atti lo ritrae sul suo carro dove, dopo essere stato a Gerusalemme, se ne tornava tristemente a casa, leggendo una pagina del profeta Isaia: « Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, la sua discendenza chi potrà descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita». ( At 8,33). Vi si parlava di uomo che – condannato a morte senza colpa – moriva senza figli. Ma nell’ordine naturale delle cose si insinua un’assurda possibilità: quell’uomo “reciso” dalla terra avrà una discendenza innumerevole. È questo che l’eunuco vuol capire: a chi si riferisce una simile profezia? Fu così che Filippo – l’apostolo di Samaria – iniziò a parlargli di Gesù. Come il Servo di Isaia anche Gesù è rifiutato dai suoi fratelli e viene ucciso (ingiustamente) nel colmo degli anni. La condizione umana di Gesù, inoltre, è simile a quella dell’eunuco etiope ancorché Egli non abbia la pelle nera, né sia uscito eunuco «dal seno della madre»; nemmeno Gesù, infatti, ha una moglie, e anche Lui muore senza lasciare figli poiché si è fatto eunuco «per il Regno dei cieli» ( Mt 19,12). Il profeta Isaia – spiega il diacono Filippo – quando parlava di una «discendenza incalcolabile» parlava di Lui, di Gesù, e chi sarà battezzato nell’acqua e nello Spirito sarà la Sua discendenza, verrà innestato nel Suo corpo di Risurrezione.

L’eunuco torna nel suo paese con una pelle nuova e un corpo nuovo sanato dalla gioia. Un corpo partecipe e fecondo di una vita piena. Lo Spirito del Signore, nel suo contagio d’amore, è capace di trasformare la morte in vita coinvolgendo e sconvolgendo i limiti del corpo. Per far ciò Egli deve passare, però, attraverso il cuore dell’umano e trasformarlo, ammorbidirlo, renderlo capace di farsi cesto di carità, arca di Pace. Da cuore di pietra trasformarlo in un cuore di carne. E questo è ben più difficile persino per lo Spirito.