Cogestione. La partecipazione dei lavoratori: perché fa bene anche alle imprese
Quali ragioni, di natura sia economica sia politica, parlano a favore della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa? Si legge all’art. 46 della nostra Carta Costituzionale: «… La Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Un chiarimento del concetto di partecipazione entro l’impresa è opportuno. La partecipazione assume un significato e una portata diversa a seconda che si ragioni entro l’orizzonte hobbesiano (il riferimento è al Leviatano di T. Hobbes del 1651) oppure entro l’orizzonte rinascimentale.
Nel primo caso, la partecipazione non si spinge oltre all’informazione e alla consultazione dei lavoratori – e tutt’al più alla parziale condivisione agli utili di impresa ( profit sharing). Nel secondo caso, invece, la partecipazione arriva fino alla gestione dell’impresa – come appunto intende l’art. 46. Perché questa differenza? La ragione è che per la seconda concezione il lavoro, prima ancora che un diritto, è un bisogno umano fondamentale. È il bisogno – come già Aristotele aveva insistito – che ogni individuo avverte di trasformare, in qualche misura, la realtà di cui è parte e quindi di edificare se stesso. Riconoscere che quello del lavoro è un bisogno fondamentale è affermazione assai più forte che dire che esso è un diritto. E ciò per l’ovvia ragione che, come la storia insegna, i diritti possono essere sospesi o addirittura negati; i bisogni, se fondamentali, no. Sappiamo anche che non sempre i bisogni possono essere espressi nella forma di diritti politici o sociali. Bisogni come quelli di fraternità, dignità, senso di appartenenza non possono essere rivendicati sul piano giuridico. È dunque il bisogno di lavorare a dare fondamento, non solo giuridico ma anche etico, al diritto al lavoro, che diversamente risulterebbe un diritto infondato e pertanto passibile di venire calpestato – come ben si sa.
Quali dunque le ragioni di cui ho scritto sopra? Ne indico due. La prima è di principio. Se è vero, come è vero, che capitale e lavoro sono entrambi fattori essenziali e dunque complementari per la produzione, non v’è argomento al mondo che porti a sostenere che le scelte strategiche nelle materie sia dell’organizzazione del lavoro sia del modello di business debbano essere assegnate esclusivamente a chi rappresenta gli interessi del capitale. È evidente che si debba discutere dei modi e delle forme in cui tale partecipazione possa avvenire – modi e forme che dovranno tenere conto sia delle specificità dei settori produttivi, sia delle circostanze ambientali, sia ancora delle caratteristiche soggettive delle persone coinvolte. D’altro canto, l’unico modo per giungere a legittimare l’esclusione dei lavoratori dalla gestione dell’impresa sarebbe quello di affermare, apertis verbis, che il lavoro è una merce, sia pure particolare, e pertanto che l’attività lavorativa può essere scorporata dalla persona che la pone in essere, proprio come avviene con l’oggetto posseduto da un individuo che viene da esso separato. Come scrisse Francesco Santoro Passarelli nel 1948: «Se tutti gli altri contratti riguardano l’avere delle parti coinvolte, il contratto di lavoro riguarda ancora l’avere per l’imprenditore, ma per il lavoratore riguarda l’essere, il bene che è condizione di ogni altro bene».
Ciò suggerisce che è il rapporto sbilanciato di potere e autorità che discende dalla fattispecie del contratto di lavoro subordinato che va corretto in radice. Relativamente al caso italiano, è degno di attenzione il fatto che, a far tempo da inizio secolo, ha preso avvio una nuova fase su tale questione, come attesta la dichiarazione comune di Cgil, Cisl, Uil del 14 gennaio 2016 col titolo “Un moderno sistema di relazioni industriali”. La partecipazione – vi si legge – deve essere organizzativa, economica, di governance. Due anni dopo, nel “Patto per la fabbrica” del 9 marzo 2018 – patto siglato anche da Confindustria – si legge che la valorizzazione di forme di partecipazione nei processi in cui si definiscono gli interessi strategici dell’impresa è un’opportunità preziosa che non può essere persa. Infine, il contratto collettivo dei metalmeccanici del 2021 muove un ulteriore passo avanti prevedendo la nascita di un “Comitato Consultivo di partecipazione, a composizione paritetica”, nel cui ambito sindacato e direzione aziendale si confrontano sull’andamento economico e occupazionale dell’impresa e sulle sue scelte strategiche, in materia anche organizzativa. E, da ultimo, l’importante iniziativa della Cisl che ha depositato un’innovativa proposta di legge di iniziativa popolare per il sostegno e la promozione della partecipazione economica, finanziaria e gestionale attraverso la valorizzazione della contrattazione tra le parti (“Avvenire” ne ha parlato il 10 marzo qui: tinyurl.com/2z58dbds) Sono questi e altri segnali che indicano come ci si stia muovendo, lento pede, verso il pieno riconoscimento della «superiorità dei diritti fondamentali della persona rispetto alle ragioni dell’economia». (A. Perulli, 2018).
Di una seconda ragione rilevante conviene dire per muovere passi spediti verso la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. È noto che il principale fattore responsabile degli aumenti di produttività nella stagione della quarta rivoluzione industriale è la digital fluency, costituita dall’insieme delle nuove competenze rese possibili dall’introduzione delle nuove tecnologie. Si tratta di una metacompetenza che va oltre la mera digital literacy, cioè la semplice conoscenza di programmi e applicazioni. Oggi, la distinzione che importa non è tra impresa digitale e non, ma tra imprese che sono digitalmente fluent – e che prosperano – e imprese che non lo sono – e quindi semplicemente sopravvivono. Le prime, infatti, hanno lavoratori che sono in grado di integrare la commercializzazione entro la progettazione, utilizzando i feedback delle vendite, il che si traduce in abbattimenti di costi e in aumenti dei livelli di competitività.
In buona sostanza, ci troviamo oggi di fronte ad una nuova segmentazione del mercato del lavoro, quella tra forza lavoro digitale e forza lavoro non digitale. Di qui l’urgenza di aggiornare la cultura manageriale ereditata dal recente passato, una cultura che è spesso incapace di colmare il profondo divario tra la logica della partecipazione esigita dalla fluency digitale – una logica che incoraggia la cooperazione tra lavoratori – e il modello ancora dominante nelle nostre imprese, che privilegia i processi lineari e il controllo gerarchico di tipo taylorista. Accade così che, grazie alla possibilità di impiegare forza lavoro digitale, le imprese nate digitali, non soggette ai vincoli rappresentati da modelli organizzativi del passato, finiscono col godere di un vantaggio comparato rispetto alle imprese digitalmente migranti.
Cosa succede invece, quando non si vuole o ci si dimentica di prendere in seria considerazione la dimensione espressiva, oltre a quella acquisitiva del lavoro? La risposta ci viene dal recente Rapporto del Ministero del lavoro (2023) che ci informa che nel corso del 2022, nel nostro paese, 1,6 milioni di persone in possesso di regolare contratto di lavoro si sono volontariamente dimesse dalla loro azienda. Si tratta di un dato in aumento del 22% rispetto all’anno precedente, quando le dimissioni volontarie erano state 1,3 milioni. Una ricerca effettuata a inizio 2022 dall’Associazione Italiana Direzione del Personale, su un campione di 600 aziende italiane, indica che il 60% di queste era stato interessato da un significativo aumento del numero di dimissioni rispetto all’anno precedente. A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto (ma non solo) lavoratori tra i 26 e i 35 anni, per la grande maggioranza (79%) occupati in aziende del Nord. È questo il fenomeno noto come Great Resignation, termine coniato dall’americano Anthony Klotz. Negli Usa, il totale dei lavoratori dimissionari nel 2021 è stato di circa 42 milioni. Andamenti analoghi si stanno manifestando in tutti i paesi dell’Occidente avanzato.
Non ci vuole tanto per comprendere le pesanti conseguenze negative che le dimissioni di un lavoratore comportano per l’impresa. Si pensi ai costi di separazione, di sostituzione, di formazione del subentrato. Mi preme qui segnalare che in tutte le ricerche disponibili la causa primaria delle dimissioni non è la ricerca di un miglioramento retributivo – come si tenderebbe a pensare – ma la ricerca di un ambiente di lavoro decente. Si rammenti che dei 17 “Sustainable Development Goals” delle Nazioni Unite, l’obiettivo numero 8 esplicitamente fa riferimento al lavoro dignitoso, cioè decente, e non solo giusto. Come si può comprendere, il problema è molto più serio di quanto sono usi a pensare coloro che, per un superficialismo di maniera, ritengono si tratti di un fenomeno transeunte. È vero il contrario. Ecco perché è anche nell’interesse delle imprese convincersi che affrettare i tempi per realizzare forme diversamente articolate di cogestione è la via maestra per scongiurare il rischio di un lento declino. Si consideri che gli statuti delle Società Benefit italiane, che hanno finora raggiunto il ragguardevole numero di duemilacinquecento, già prevedono la partecipazione in senso forte dei lavoratori alla loro gestione.
Mi piace terminare sottolineando come il conseguimento dell’obiettivo qui indicato dipende in ultima istanza, dall’assetto istituzionale, cioè dalle regole che una società di uomini liberi decide di darsi. Non c’entra la scarsità delle risorse, come troppo spesso si tende a credere o a far credere. Bisogna avere l’onestà intellettuale di ammettere che è dal modello di ordine sociale che si vuole forgiare che discende la possibilità o meno di realizzare la libertà del lavoro e non solo della libertà nel lavoro. Il capitalismo è uno, ma le varietà di capitalismo sono tante. E le varietà dipendono proprio dalla matrice culturale che una Comunità intende deliberatamente creare.