Opinioni

Giubileo. L'Anno Santo nel mondo in guerra: la parola giusta per risvegliarci

Francesco Ognibene venerdì 10 maggio 2024

Per fede e per ragione. Il Giubileo è anzitutto un evento cristiano, il più grande, visto l’anno intero della sua estensione temporale e la capacità di unire tutti i credenti in un nuovo annuncio condiviso davanti al mondo. È come se il Vangelo tornasse fresco di inchiostro, eco immediata della presenza di Dio dentro la storia, un getto di acqua sorgiva per irrigare tutta la Terra. Ma proprio per questo suo respiro universale la proposta giubilare sa parlare anche all’intera umanità, famiglia indivisa di gioia e fatica, limite e sogno, offrendo un’esperienza immediata della novità dirompente del Dio fatto uno di noi e della luce che dalla risurrezione di Cristo in poi attraversa i confini del tempo per parlarci di eternità, come se fosse la prima volta che ci accade di ascoltarlo.
Serve credere per vederlo senza filtri, non serve credere per intuire che questo sguardo inesauribilmente fiducioso sulla vita non esclude nessuno. Al denominatore di tutti c’è l’ambizione che la vita con la sua bellezza non finisca mai, che ogni ferita (e di quante, e quanto sanguinanti, siamo testimoni attoniti) trovi guarigione, che tutti i desideri di bene abbiano la meglio sulla tenebra che pare volerci risucchiare come un buco nero. Ragione e fede ci danno, a una voce sola, la parola giusta per definire questa sete di un infinito che ogni persona umana sa in cuor suo accessibile: la speranza, che ci spinge dentro il rompicapo di ogni giorno, infallibile guida per non perderci né scoraggiarci, per alzarci e rialzarci, costruire e riparare, immaginare e compiere, senza sosta.
Dentro la casa accogliente e spaziosa della speranza c’è una nuova occasione per ciascuno, senza distinzioni, con i credenti che nella loro certezza della redenzione già compiuta e sempre all’opera sanno di poter stendere la mano per incoraggiare gli altri, a partire dai più provati. Responsabilità inderogabile dentro un tempo minacciato da guerre e ingiustizie com’era impossibile prevedere quando (ed era solo ieri) si pensava fossimo avviati a un futuro di pace e progresso senza fine. Siamo disposti a metterci in gioco?

È chiaro allora e facilmente comprensibile perché il Papa vuole che la Porta Santa del Giubileo ormai prossimo si apra sulla speranza, architrave della Bolla di indizione come virtù teologale «che sostiene la vita e permette di non cadere nella paura», ma insieme umanissima «fiducia» animata dal «tanto bene che è presente nel mondo». Quella che la Chiesa offre proprio in un tempo improvvisamente popolato di ombre non è una speranza vagamente consolatoria – un «semplice ottimismo» o «un’effimera aspettativa legata a qualche sicurezza terrena», come Francesco ha detto ai Vespri dell’Ascensione – ma quella che «non confundit», secondo il bel verbo latino dell’espressione paolina nella Lettera ai Romani scelta per il titolo della Bolla (e che ritroviamo declinato al futuro a conclusione del Te Deum, come una promessa incrollabile a ogni cambio di anno): la speranza che “non delude”, «desiderio e attesa del bene» che resta «nel cuore di ogni persona» malgrado le prove del tempo e della vita.
Pare quasi un azzardo proporla oggi, tali e tante sono le dimostrazioni che indurrebbero a lasciar perdere, adattandosi semmai nel modo più efficiente e comodo a quel che malgrado ogni nostro auspicio “non va” e spesso sembra andare sempre peggio, attratti dalla «tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza». È qui che la speranza cristiana innesta il suo germoglio sempreverde in quella umana, la fede chiama a sé la ragione, sapendola plasmata della stessa materia prima. Non siamo fatti per arrenderci e disperare, un tratto che dice tutto della nostra dignità inesauribile e che ricorda la fisionomia del Padre al quale somigliamo come suoi figli. Per questo dentro ogni buio sappiamo trovare il punto di fuga che ci attende: è vero, sempre, specialmente oggi.

E dunque, ricordando la piaga della guerra, il Papa la legge attraverso la speranza traducendola in un permanente impulso di pace, «esigenza» che «interpella tutti» e «impone di perseguire progetti concreti». E oltre «la perdita del desiderio di trasmettere la vita», che produce «ormai troppe culle vuote in molte parti del mondo», va colta la certezza che «tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere». E ancora: di «segni tangibili di speranza» sono in attesa detenuti e ammalati, anziani e poveri, migranti e giovani, spinti da un futuro «incerto e impermeabile ai sogni» ad «azzerare i desideri», mentre sono loro stessi speranza. Non si tratta allora di “inventare” un’idea originale da proporre alla Chiesa e al mondo ma di risvegliare quel che c’è già e che abbiamo lasciato ingrigire finendo per accettare ciò che inquina, deprime, uccide, spegne, come fosse inesorabile. Nella natura umana invece è all’opera un principio di vita e di luce che non si estingue e che è in grado di cambiare un destino che pareva segnato. Per risvegliare questa sorgente di futuro servirà anche riconciliarci con gli altri e il creato, con noi stessi e con Dio, facendoci testimoni di quella misericordia che abbiamo imparato a frequentare nel Giubileo straordinario di otto anni fa. E allora, preparandoci ad attraversare la Porta Santa che ci attende da pellegrini della vita, non sottovalutiamo la speranza, «bambina che traverserà i mondi» come la descrisse Charles Péguy, definendola «insignificante» ma «immortale», «da nulla» ma «irriducibile», «fiamma tremante» che «squarcerà le tenebre»: la virtù che «stupisce» Dio. Una forza che «non delude», in eterno.